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“Scoperchiato l’ex Teatro Comunale: continuano i lavori di demolizione di un pezzo di storia fiorentina”. Così l’edizione locale del Corriere della Sera titolava, il 3 settembre 2021. È storia vecchia d’altronde, e chi segue le (tristi) vicissitudini urbane di Firenze aggiungerà questa ultima svendita del patrimonio artistico al lunghissimo elenco degli ultimi anni.
Menzioniamo qualcosa, tra ciò che è fatto e ciò che in corso: l’ex Tribunale in piazza San Firenze; villa Pepi a Careggi; villa di Rusciano a Firenze Sud; tutto il complesso trecentesco delle Gualchiere di Romole, alle porte di Firenze; parte dell’ex Meccanotessile, i palazzi Vivarelli-Colonna in Sant’Ambrogio; l’ex caserma Vittorio Veneto in Costa San Giorgio, a due passi da Ponte Vecchio; l’intero complesso di Sant’Agnese e l’ex convento di Sant’Orsola, nel cuore di San Lorenzo.
Come un finto dialogo, domandiamo e rispondiamo: a cosa dovrebbero portare le varie ristrutturazioni? Talvolta a gruppi di appartamenti con negozi annessi, più spesso la direzione è quella del business dei luxury hotels, altre volte ancora si tratta semplicemente di privatizzazioni per mano di società o personaggi facoltosi. E gli attanti di questo processo di smaterializzazione del patrimonio artistico-culturale chi sono? Il grande gioco lo fanno le società di investimento che sono in cerca dell’affare d’oro, spesso di carattere speculativo, ma è importante anche il ruolo dei privati, che si aggiudicano pezzi di patrimonio Unesco a suon di rubli e dollaroni. E durante la pandemia la svendita ha raggiunto i suoi picchi, data la nuova crisi del mercato immobiliare che ha portato a svalutazioni intorno al 30%. Poi, nel terzo trimestre 2021, movimento inverso: le compravendite sono cresciute a Firenze del 41% sull’anno precedente, primato italiano di grande misura (+12% su Roma, seconda città).
Ma ovviamente questo ricco banchetto non è stato preparato in un giorno, piuttosto è il frutto di almeno un decennio di indefesso lavoro in nome del miraggio turistico, costantemente presentato come il grande volano dell’economia toscana e fiorentina in particolare. E così, fra una “mission” e una sviolinata, fra i nuovi affitti brevi e i vecchi modi di gestione privatistica di ciò che è pubblico, a Firenze si è assistito a una crescita del flusso turistico, negli anni Dieci, addirittura del 55%. E mentre il centro storico si è svuotato di residenti, servizi, botteghe e anima, i prezzi sono cresciuti, i luoghi universitari e i suoi studenti si sono allontanati assieme agli ambulatori, alle case popolari, alla vivibilità. In compenso si è arrivati a contare 217 esercizi ristorativi per km², nell’area patrimonio Unesco, e 17 strutture ricettive ufficiali. Un primato dopo l’altro per questa cittadina, “graziosa e ‘sì carina”, che possiede ad oggi la più alta concentrazione di annunci d’Italia nel centro storico. Gli abitanti, invece, sono stati relegati nelle periferie e nei comuni limitrofi, lontani dai circuiti più profittevoli per i capitali internazionali. Però non si preoccupino: quest’inverno 2021 (e speriamo prima o poi stabilmente, che diamine!) potranno ammirare dall’alto i bei tetti e il Cupolone, dalla Grande Supernuova Ruota Panoramica di Firenzeland!
“Firenze città-vetrina”, si sa, ma ormai è vetrina anche nel senso che è un negozio, e in particolare un negozio durante la stagione di saldi e con poca possibilità di controllare le vendite, visto che anche l’autonomia della Soprintendenza è sotto attacco da anni. I vincoli del centro storico costituiscono infatti uno degli ultimi baluardi di difesa nei confronti di questo nuovo “sventramento” fiorentino – tanto per rammentare un termine noto alla storia urbanistica di fine Ottocento. E d’altronde la Soprintendenza, quando non è d’accordo, va bypassata in qualche modo, come diceva in diretta nazionale il sindaco Nardella già nel 2020, «altrimenti ci prendiamo in giro». Sì, sindaco, ci prendiamo in giro. Mentre non ci prendiamo in giro se, a volte senza processi partecipativi, altre volte – quando si organizzano – semplicemente in barba a questi ultimi, si vendono palazzi storici a società esterne pronte a farne hotel di lusso e spa, ad uso e consumo della cittadinanza (quella che se lo potrà permettere).
L’ultimo della lista è il piccolo Teatro Nazionale di via de’ Cimatori che, da teatro delle mirabolanti imprese in vernacolo di Stenterello, diverrà presto un ben più misero teatro di massaggi shiatsu e cocktail a bordo vasca. La storica platea che si trasforma nella piscina di un centro benessere, un posto da cui uscire purificati e rigenerati insomma. Suvvia, in qualche modo una relazione col teatro vero c’è: prendetela come una katharsis 2.0, va bene? E poi apprezzate almeno che a orchestrare il tutto sia stata una società di investimenti fieramente italiana, la BL Consulting in speciale collaborazione con la Fondazione Zeffirelli. (Sorte simile spetterà all’ex sede della Cassa di Risparmio di Firenze di via Bufalini, a due passi dal Duomo, acquistata dalla holding americana Colony Capital e pronta anch’essa a divenire, coi suoi 18.000 m², un complesso da oltre 140 luxury suites).
Questo per quanto riguarda ville e palazzi storici. Poi ci sono gli spazi pubblici, le piazze e le vie. Se nel 2018 faceva il giro del mondo la notizia della fantasiosa ordinanza anti-panino, quella che vietava il consumo di schiacciate e bevande in via de’ Neri, sono sulla stessa direttrice le ordinanze anti-degrado che hanno coinvolto ultimamente le piazze fiorentine, tra rifacimenti aberranti e divieti di consumo o stazionamento.
Se la cosiddetta movida di piazza Sant’Ambrogio era già stata debellata dieci anni fa scomodando addirittura un Super Truck dell’esercito, negli ultimi anni la caccia al degrado si è fatta sempre più pressante, come fosse un ectoplasma che appare e scompare, un nemico invisibile da combattere con ogni mezzo. E l’avvento del Covid ha solo accelerato le cose, permettendo il moltiplicarsi delle ordinanze in nome – neanche ci fosse il bisogno di specificarlo – della salute pubblica.
Sorella Movida, fratello Degrado. Parole prese in prestito un po’ alla buona. Movida viene dal mover spagnolo e si riferisce tendenzialmente ad una vita notturna alticcia e sfrenata, quella della Milano da bere degli anni Ottanta per capirsi. Degrado viene invece dal latino “de + gradus”, e sta anche qui per movimento, ma con una specifica: movimento discendente, decadente meglio. Dall’alto verso il basso. E non è un dato oggettivo in quanto, come ci ha insegnato oltre un secolo di relativismo, un dato cambia se cambia il punto di vista. Ebbene, cos’è il degrado per le istituzioni? Dai titoloni dei giornali si intuisce che Degrado è un clochard, ma è anche uno studente – magari benvestito – che beve una birra seduto su una panchina o sugli scalini di una chiesa. Degrado è orinare in strada, ma è anche una festa di laurea festeggiata fuori dalle mura di un locale. Sicuramente per quegli stessi giornali non sono degrado i tavoli di ristoranti che sempre più occupano le piazze, sicuramente non lo sono i cartelloni pubblicitari sulle facciate dei palazzi, né lo sono i cordoni di rosso velluto che, per evitare che un culo si sieda su uno scalino, impediscono di ammirare da vicino le facciate delle chiese, e sicuramente non è degrado affittare ai ricchissimi del mondo ponti, piazze e palazzi della città, impedendo a tutti gli altri di fruirne. Questo appello al degrado ci sembra dunque piuttosto vago, volutamente vago, eppure al tempo stesso chiaramente indirizzato. Degrado. Una parola stridente – come movida d’altronde, che porta alla mente feste fumose e imprecisate – senza un significato univoco. Il tutto e il nulla insieme, un mostro creato per autoalimentarsi a suon di notizie anche falsate, titoli ad effetto, foto scattate per l’occasione.
Questa, in pillole, è la cornice che costringe da anni la culla del Rinascimento, e noi di Firenze NoCost, in quanto abitanti e scrittori, ci limitiamo viverla e a osservarla con ironia, a divulgarne le sue bellezze ma anche le sue oscenità. Abbiamo iniziato a studiare e mappare il centro storico e l’intorno nel 2015, prima di uscire con la nostra guida (anti)turistica nel 2018, poi aggiornata di anno in anno.
Ebbene, il nostro percorso di ricerca e scrittura ci ha in più modi portato a toccare con mano questa lenta ma continua perdita di pezzi del patrimonio storico-culturale fiorentino.
Italo Calvino nel 1972 pubblicava le sue Città invisibili, racconti di città fantastiche (o realissime?) che il viaggiatore veneziano Marco Polo narrava a Kublai Khan. A noi piace giocare col celebre titolo, noi che invece siamo qui a raccontare di Città invivibili. O meglio: invivibili e invisibili, visto che pezzi di città spariscono meravigliosamente come pezzi di puzzle sotto al tappeto, e ne vanificano la vivibilità della collettività dentro a quello stesso ecosistema ormai compromesso, macchiato in modo indelebile e zoppicante.
Dov’è il giardino all’italiana dei palazzi cinquecenteschi dei Vivarelli-Colonna, in via Ghibellina, angolo con via delle Conce? Non esiste. O meglio: esiste, ma solo per chi lo comprerà da Cassa Depositi e Prestiti che lo ha recentemente messo in vendita. Questo, che prima era un giardino pubblico, ora è un pezzo di città invivibile e invisibile. Dove andrà a finire il Chiostro di Sant’Apollonia, quello che da anni subisce attacchi e tentativi di privatizzazione da parte della Regione Toscana? E quello in cui parimenti da anni lo spazio autogestito La Polveriera porta avanti, tra le tante attività, il Festival di Letteratura Sociale, un appuntamento fisso per scrittori, editori e lettori che ha visto negli anni la partecipazione di migliaia di persone e decine di artisti di livello internazionale? Diverrà anche questo presto un pezzo di città invivibile/invisibile? Dove finiscono i pezzi di città che perdiamo? Di cosa sono fatte le città che perdiamo?
Proviamo a ripensare Firenze, e per farlo spostiamo l’attenzione non su altro, ma altrove. Il regista Andrea Segre ha ritratto la sua Venezia durante il Covid. Il film in questione si chiama Molecole (2020). L’immagine fantasmatica di Venezia – vittima del turismo di massa, della Gentrificazione, dell’aqua granda, della speculazione, delle Grandi Navi – deve infatti essere un monito, deve essere lo stigma di una condanna che abbiamo causato e che ci siamo causati. Un fantasma che dobbiamo portarci dietro come viaggiatori, come stranieri, come abitanti e come istituzioni.
Venezia è la morte annunciata, Venezia sono i monatti di un Paese nato atlantideo e riportato alla luce, condannato ad essere causa della propria autodistruzione. Venezia se la porta dentro a piccole dosi mezza Italia. C’è un po’ di Venezia dentro al giardino Vivarelli-Colonna, c’è un po’ di Venezia dentro a ogni libreria sparita, a ogni falegnameria scomparsa, a ogni cinema chiuso. C’è un po’ di Venezia in ogni svendita assassina, in ogni appalto truccato, in ogni ordinanza anti-qualcosa.
Forse stiamo esagerando, penserai, caro lettore. Ma noi siamo scrittori: non siamo urbanisti, non siamo architetti. Perdonaci dunque se questo intervento ti sarà sembrato troppo fantasioso o leggero o meno utile di altri. Ma questo è, d’altronde. Noi raccontiamo storie. E questa (triste) storia, nella speranza che inverta la rotta, la terminiamo così, con le parole di un autore ben più grosso di noi:
[…] Kublai non sembrava disposto a cedere alla stanchezza. – Dimmi ancora un’altra città, – insisteva.
– … Di là l’uomo si parte e cavalca tre giornate tra greco e levante… – riprendeva a dire Marco, e a enumerare nomi e costumi e commerci d’un gran numero di terre. Il suo repertorio poteva dirsi inesauribile, ma ora toccò a lui d’arrendersi. Era l’alba quando disse: -Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.
– Ne resta una di cui non parli mai.
Marco Polo chinò il capo.
– Venezia, – disse il Kan.
Marco sorrise. – E di che altro credevi che ti parlassi?
L’imperatore non batté ciglio. – Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome.
E Polo: – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.