Turismo, spazio pubblico e decoro: la buona educazione dei turisti

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Parafrasando gli Offlaga Disco Pax, vorremmo poter dire che:

La comparsa
Dei tavolini
Fuori dai ristoranti
Non è avvenuta in una data precisa.
Sono cose che misteriosamente accadono.[1]

Ma di misterioso qui non c'è niente: la “tavolinizzazione” di molte piazze e vie italiane è avvenuta nel corso di svariati anni, procedendo per progressivi aggiustamenti, fino alla prima fase di rilancio infra-pandemico, quella dell'estate del 2020.

In questo articolo ci concentreremo su due fenomeni che ci sembrano intrecciati. Da una parte questo contributo vuole essere una riflessione sui processi di privatizzazione dello favoriti delle misure di sostegno previste per le attività del comparto della ristorazione nella prima fase di “rilancio” infrapandemico, in particolare sottolineando la progressiva estensione dei dehors in una città turistica come Firenze, già fortemente caratterizzata da fenomeni di valorizzazione del suolo pubblico. Connesso a ciò, ci sembra che un'altra forma di parziale privatizzazione, forse maggiormente implicita, dello spazio cittadino sia connessa ai meccanismi di produzione del decoro, a loro volta precedenti la pandemia e rafforzati da questa. Entrambi questi fenomeni chiamano in causa, in maniera articolata e non necessariamente simmetrica, tanto i cittadini – intesi in senso ampio come fruitori dello spazio locale – quanto i turisti, una categoria che lo spazio locale lo fruisce transitoriamente. Cercheremo in questo contributo di abbozzare una descrizione del fenomeno, per arrivare a mostrare come questo duplice processo di privatizzazione dia vita a processi di inclusione ed esclusione. In particolare, vale la pena sottolineare fin da subito come entrambi questi processi non possano essere compresi come una privatizzazione dello spazio pubblico strictu sensu; non si tratta infatti una diretta ed esplicita sottrazione allo spazio urbano di porzioni di città: mentre la prima è più propriamente una forma di commercializzazione, la seconda fa riferimento a una regolazione degli usi socialmente legittimati dello spazio. Eppure entrambe sembrano alludere a una concezione privata, più che pubblica, dello spazio, che diviene depoliticizzato e regolato da norme che tendono a escludere più che a includere, a vietare più che a mantenere in un negoziato permanente i modi d'uso dello spazio.

Turismo urbano e nuove gentrificazioni

Secondo l'UNWTO (United Nations Word Tourism Organization), per turismo si intende «il movimento di persone che si spostano dal luogo di residenza a un altro luogo, dove si fermano per tempo libero o per affari per almeno una notte».

La gestione del turismo ha ricadute enormi sulla città, che portano allo sviluppo di fenomeni quali il sovraffollamento turistico, lo sviluppo di uno specifico mercato del lavoro e del commercio, l'aumento dei prezzi e l'espulsione dei residenti dal centro storico, lo sviluppo di servizi pensati prevalentemente per il “turista immaginato” (o “desiderato”), una paradossale omogeneizzazione delle differenze (nella misura in cui i servizi e i beni offerti sono contemporaneamente “tipici” e analoghi da una città all'altra), e spesso la percezione di un peggioramento della qualità della vita.

Per analizzare l'impatto del turismo sulle città è necessario concentrarsi su chi beneficia dei vantaggi del turismo e chi invece ne sostiene i costi dovuti agli impatti negativi (Barberis 2008). I benefici non sono solo economici, ma riguardano anche importanti valori immateriali legati al viaggio come attività sociale e umana, come lo scambio tra culture, una predisposizione all'accoglienza e all'integrazione, ecc. Questi benefici, e la loro distribuzione fra la popolazione, sono figli di concrete scelte politiche. I costi di un sistema economico prevalentemente turistico ricadono su tutta la popolazione residente in maniera indiretta e riguardano la raccolta dei rifiuti, l'arredo urbano, il trasporto pubblico, lo spazio pubblico e il patrimonio culturale. Per limitare gli svantaggi di quello che viene chiamato overturism (ossia un processo di crescita del turismo fino a livelli eccessivi che impatta negativamente tanto il rapporto fra territorio urbano e percezione che i residenti hanno della loro qualità della vita, quanto la stessa esperienza del turista) è necessario agire in modo “sostenibile”, prevedendo varie azioni tra le quali, per citarne alcune, un maggior controllo degli introiti dei privati e delle varie tasse, tra cui quelle di soggiorno, destinando poi parte di queste anche a usi pubblici o azioni atte a limitare i flussi di visitatori, tramite la riduzione del numero di posti letto e di affitti brevi a opera di piattaforme come Airbnb e Booking.com.

Il turismo è un fenomeno che si connette, come vedremo meglio in seguito, direttamente anche al tema del decoro. Ciò può avvenire principalmente in due modi: da una parte attraverso il noto e consolidato processo della gentrification e dell'espulsione dei residenti dalle aree maggiormente interessate dai flussi turistici fenomeno che a sua volta assume differenti coloriture a seconda del punto di osservazione[2]; in seconda battuta con l'applicazione al turista stesso di una serie di categorie relative al decoro e a una morale a questo collegata.

Il termine gentrification indica il progressivo cambiamento socio-culturale di un'area urbana da proletaria a borghese, in seguito a una rivalutazione del mercato immobiliare. La prima sociologa a usare questo termine fu Ruth Glass nel 1964 in merito alla trasformazione di un quartiere di Londra. Il tema della si collega a quello del turismo poiché in tempi più recenti questi cambiamenti si verificano specialmente nei centri storici e nei quartieri centrali della città, sottoposti a riqualificazione urbana anche per rendere in parte maggiormente attrattivi questi spazi per i turisti e vari city users.

Il processo di gentrification legato al turismo rende evidente quel processo di saldatura tra il pubblico (inteso come comparto istituzionale) e privato, laddove il primo si rende in un certo qual modo facilitatore e “garante” del secondo. I flussi di investimento del settore privato legato al turismo hanno trovato pieno appoggio nelle intenzioni dello Stato – e degli ambiti inferiori di governo – di direzionare lo sviluppo di alcune città verso monocolture turistiche di cui la pandemia in cui ci troviamo in mezzo ha evidenziato rischi e limiti (Agostini, Fiorentino e Vannetiello 2020). A Firenze, come in molte altre città, questa forma di estrattivismo si concretizza ad esempio nell'acquisizione da parte di gruppi immobiliari multinazionali – legati a vario titolo all'industria del turismo – di edifici pubblici (o anche di vaste aree immobiliari private in disuso) che vengono “riqualificati” e trasformati – anche in deroga ai progetti di pianificazione urbana – in strutture esclusive di alloggio per i vari soggetti che transitoriamente dispongono della città, come chi può permettersi di alloggiare negli Student Hotel, residenze di lusso per studenti e per turisti. Il portato ultimo di questi processi è quello di rendere inospitale il centro storico, tanto per una popolazione residente non più in grado di sostenere i costi (non esclusivamente economici) di una localizzazione centrale; tanto dei vari indesiderati e indecorosi: senza tetto, immigrati, mendicanti, mercatari abusivi, poveri. Un processo, dunque, in cui elementi economici (il costo della vita crescente), securitari (i Daspo urbani), emotivi (la percezione di un'atmosfera non accogliente) si intrecciano, limitando le possibilità di fruire e disporre della tavolozza della città e dei suoi spazi, al di fuori di un'immagine ideale di quello che il turista globale dovrebbe desiderare.

Il processo di gentrificazione è stato inoltre accelerato da piattaforme di sharing economy quali Airbnb, che comportano il rialzo dei valori immobiliari e dei canoni di locazione, attraverso il duplice meccanismo che aumenta l'attrattiva dei quartieri creando al contempo una situazione di scarsità di alloggi a medio-lungo termine, portando così all'espulsione dei residenti di ceto basso (e in misura crescente, medio) dai centri urbani (Gainsforth 2019). Lo sviluppo incontrollato dell'economia turistica ha comportato la diffusione di una crescente opposizione da parte di molteplici gruppi di cittadini, anche attraverso la creazione di movimenti di protesta formalizzati (ma spesso anche solamente le scritte sui muri sono indicatori di una situazione di tensione). Nel 2018 è stata creata SET, una rete contro la nelle città del Sud Europa (Venezia, Valencia, Siviglia, Palma, Pamplona, Lisbona, Malta, Malaga, Madrid, Girona, Donostia/San Sebastian, Canarie, Camp de Terragona, Barcellona). Tra gli effetti negativi di un eccessivo turismo, nel Manifesto del movimento si trovano un'erosione del diritto all'abitare, la svendita del patrimonio pubblico, la gentrificazione e lo svuotamento dei centri storici dei residenti e l'eccessivo lavoro precario nel settore del turismo. In riferimento a quest'ultimo nasce nel 2015 “Mi riconosci? Sono un professionista del mondo culturale”, un movimento per la valorizzazione della riqualificazione dei titoli di studio del settore turistico.

Gentrificazione commerciale e spazio pubblico

Secondo una ricerca su Roma condotta dall'Ufficio Studi di Fipe-Confcommercio, nell'ultimo anno il 64% dei consumatori ha preferito mangiare all'aperto. La motivazione principale non è stata solo legata alla pandemia, ma anche al fatto che mangiare all'aperto in bar e ristoranti ha un impatto emotivo positivo. I meccanismi di riduzione dello spazio pubblico sono difatti spesso collegati a quelli del decoro e della sicurezza di una città.

In ambito turistico, il processo di rigenerazione urbana/gentrificazione e la commercializzazione dello spazio pubblico legato al consumo di cibo e bevande (Loda, Aru, Cariani 2011, Bell 2007) sono strettamente collegati. Nell'articolo The hospitable city: social relations in commercial spaces (2007), David Bell racconta come quella che chiama l'«ospitalità commerciale» sia diventata sempre più importante per il branding e la promozione delle città. Questa “ospitalità” deriva dai dehors, cioè spazi all'aperto provvisti di tavolini, tipici dei bar e dei ristoranti. Questi spazi legati al ristoro e al bere vengono utilizzati come spazi non soltanto legati al consumo, ma come spazi per produrre e riprodurre modi di vivere e di visitare la città. I termini foodatainment e drinkatainment rimandano proprio al legame tra il consumo di cibo e bevande e l'entertainment urbano (Zachary 2006). Questo vale soprattutto nei centri storici, mentre in periferia i dehors continuano a essere dei semplici bar con i tavolini fuori con prezzi non aumentati e con clienti residenziali (Loda, Aru, Barsotelli, Sbardella in Loda e Hinz 2010). Le ordinanze dei sindaci che vietano di sedersi a mangiare un panino sulle scalinate delle chiese di molte piazze del centro storico hanno le loro fondamenta etico-economiche nell'opinione che quel mangiare il panino rispecchia un modo di visitare la città e un determinato tipo di turista: il turista di massa (povero) e il residente (povero). Questo processo ha trasformato nel corso del tempo spazi pubblici nel senso stretto (Smith 2005, Mitchell 1995), cioè spazi che è possibile fruire liberamente, in spazi privati. L'accesso a determinati luoghi diventa possibile solo quando/se mediato dal consumo, specialmente durante la diffusione del Covid-19. Già nel maggio 2020 in molte città italiane vengono approvati regolamenti straordinari per le occupazioni del suolo pubblico per attività di ristoro all'aperto (sedie e tavolini). Le piazze non possono essere dunque “occupate” dagli assembramenti di persone, ma possono essere totalmente invase da tavolini di ristoranti e altri locali, dando sempre più forma a quella che è stata definita la «tavolinizzazione della città» (Aru 2016). La concessione di spazio pubblico gratuito per bar e ristoranti è stata prorogata fino al 31 dicembre 2021. Nel corso del tempo tali ordinanze si sono moltiplicate e in alcune piazze (come ad esempio Piazza Sant'Ambrogio e Piazza della Repubblica a Firenze) è stato anche previsto un divieto di stazionamento, che escludeva gli spazi della ristorazione: per un periodo è stato quindi possibile attraversare queste aree solo per accedere agli esercizi commerciali.

Si assiste dunque a una socializzazione ancora più mediata dalle consumazioni. I luoghi legati al consumo assumono «il valore di luoghi non solo di scambi, di offerta, di servizi e di consumo, ma anche d'incontro e di socializzazione» (Cirelli 2009, p. 4). Si tratta di quei luoghi che Paolo Jedlowski e Olimpia Affuso definiscono «spazi intermedi», inseriti fra l'ambito familiare e l'ambito professionale, che stanno prendendo sempre più il posto degli spazi pubblici. Uno studio del Laboratorio di Geografia sociale dell'Università di Firenze sui dehors ha mostrato come questi cambiamenti (passaggio da spazi pubblici a spazi privati legati al consumo) sono legati spesso ad una “perdita di memoria” rispetto al cambiamento, tale da portare nel corso del tempo gli abitanti della città a non ricordare cosa vi era in quello spazio prima di bar con tavolini all'aperto (Loda e Hinz 2010). Questo passaggio ci sembra sempre calzante ancora di più in questo periodo di trasformazione e transizione a causa dell'emergenza sanitaria in cui vengono emanate ordinanze per la gestione dello spazio pubblico a favore di commercianti.

Il tema del decoro si intreccia dunque al tema dello spazio pubblico nel momento in cui, in nome del primo, le operazioni di “pulizia” presuppongono la scomparsa di quest'ultimo e la sua assimilazione agli altri spazi privati della città. La piazza di Santo Spirito a Firenze è un caso emblematico. In seguito alla manifestazione del 25 Aprile 2021, è stata approvata una nuova ordinanza del sindaco che vieta l'accesso al sagrato della chiesa. In seguito a questa, lo spazio del sagrato era stato recintato da cordoni e fioriere (durati poco, a onor del vero). Sul sagrato, spazio di socializzazione delle serate fiorentine, adesso non è più possibile non solo sedersi, ma anche, 24 ore su 24, semplicemente stazionare o transitare, tranne alcune eccezioni. Altre motivazioni, quali il disturbo della quiete, che nelle intenzioni delle amministrazioni costituiscono una componente fondamentale del degrado della città, vengono usate per limitare l'accesso alla piazza, luogo di socializzazione e ospitalità per eccellenza (Bell 2007), riscontrando tra l'altro il consenso dei comitati contro il degrado (nei fatti esiste comunque una ulteriore frattura, che in questa sede non abbiamo il tempo di analizzare, tra quelli che potremmo chiamare i residenti della piazza, che la vivono come luogo di socializzazione, e i veri e propri residenti del quartiere, che posseggono appartamenti e case nella zona). Gli spazi pubblici si trasformano sempre più in spazi esclusivi, dove l'accesso implica una lotta tra fruitori di diverso tipo, richiamando sempre di più alla mente il Condominio di Ballard, «un elegante condominio in una zona residenziale, costruito secondo le più avanzate tecnologie, è in grado di garantire l'isolamento ai suoi residenti» (2003), dove i piani bassi sono dedicati alle classi inferiori e i piani alti alle classi emergenti (Pisanello 2017). In questo caso però non si tratta di una privatizzazione in senso stretto, lo spazio rimane accessibile formalmente (almeno in parte), ma la dimensione simbolica viene messa in secondo piano. Il processo di segmentazione dello spazio è ancora più evidente in altre occasioni, come nel caso dell'affitto per eventi privati di alcune piazze e altri luoghi significativi della città, in cui la privatizzazione avviene tramite una mercificazione diretta (benché temporanea) dello spazio pubblico. Contribuire però alla costruzione di una città vetrina, cioè una città trasformata in una vetrina scintillante dove viene esposto uno specifico stile di vita con l'intento di attrarre consumatori (Amendola 2006), attraverso eventi di questo genere non contribuisce né alla protezione né al rilancio della città, ma piuttosto tende far risaltare sempre di più l'idea di una città turistica e poco residente (cfr. Tarsi e Carta 2021).

Decoro urbano e spazio pubblico turistificato

In generale, l'esperienza turistica tende a prodursi e riprodursi all'interno di percorsi, itinerari guidati che segmentano lo spazio urbano scegliendo cosa mostrare e cosa occultare. Questo processo rimane sempre ambivalente, nella misura in cui ciò che per alcune categorie di turista deve essere nascosto, per altre è ciò che può essere valorizzato. In questo senso è emblematica la costruzione della piattaforma Airbnb soprattutto nel periodo iniziale di attività: la costruzione di uno spazio del turismo a basso costo, “sincero e autentico” rispetto alla messa in discussione della vetrina turistica tradizionale. Questo ha fatto leva su un turismo prevalentemente giovanile (o forse giovanilistico) e poco mediato da strutture ricettive tradizionali. Generalmente, però, «i meccanismi di regolazione del turismo mirano alla riduzione della stranezza e a imporre la prevedibilità, garantendo così ai visitatori una sensazione di sicurezza» (Hoffman et al. 2011)[3]. Questo dispositivo sostiene, in un certo senso, la certezza dello scambio (simbolico) del turismo, come strumento di separazione tra l'atteso e l'inatteso, fra ciò che è stato acquistato e ciò che no. Per non cadere nella peggiore delle critiche possibili: quel “non è stato all'altezza delle aspettative” che ha tanta influenza nel gioco delle recensioni.

L'aggettivo decoroso viene usato di solito per indicare persone o luoghi che fanno riferimento a un livello medio-basso della società (Pitch 2013). Le città sono spesso state oggetto di politiche di pulizie in nome del decoro, che sono andate a trasformarle sempre di più in città vetrine, dove vengono esposti modi, comportamenti e stili di vita adatti ad una determinata popolazione con l'intento di attrarre consumatori, in primis i turisti. Questo insieme di pratiche, inoltre, ha l'intento di convertire spazi pubblici in spazi privati, in nome di una maggiore sicurezza. Appellandosi al decoro i sindaci emanano ordinanze che hanno come oggetto questioni più disparate, come la somministrazione di bevande alcoliche, il danneggiamento degli spazi pubblici (es. i graffiti), l'accattonaggio, la prostituzione, l'immigrazione e il disturbo della quiete pubblica. Come ricorda Pisanello in In nome del decoro (2017), l'immaginario del decoro di una città è mosso anche dai media digitali: le pagine Facebook contro il degrado sono il luogo virtuale che consente a tutti i cittadini di segnalare cosa è opportuno eliminare/nascondere affinché la vetrina della città risulti splendente.

Nel contesto fiorentino abbiamo visto apparire nel corso degli ultimi anni, già prima della pandemia di Covid-19, alcune estensioni di questo meccanismo regolativo, in una forse inedita commistione fra turisti e residenti. La saldatura fra turismo e dispositivi del decoro è ad esempio evidente nella campagna EnjoyRespectFirenze, promossa dal comune stesso. In questa campagna di sensibilizzazione si enumerano e definiscono una serie di comportamenti “sbagliati” che non possono essere agiti nel centro cittadino, o, per dirlo in altri termini, meccanismi che creano una lettura differenziata dei comportamenti consoni in alcune parti della città rispetto ad altre. Alcuni di questi comportamenti sono sanzionati con multe fino a 500€, ma altri riguardano piuttosto il registro discorsivo delle raccomandazioni, delle buone norme di condotta. Il discorso sul turismo cittadino e sul decoro si innesta nel più generale conflitto sul diritto alla città, un conflitto su chi possa avere il diritto di viverla, o perlomeno di viverne determinate zone, e chi debba essere escluso. Nell'ultimo decennio sono state prodotte in molte città italiane una serie di ordinanze con l'intenzione di “ripulirle” in nome del decoro. Si tratta di ordinanze che hanno soprattutto un valore simbolico, vista la difficoltà di farle rispettare da parte della polizia municipale (Pitch 2013, Pisanello 2017). La volontà formalizzata da molte di queste ordinanze sul decoro urbano è quella di tracciare dei confini, di costruire delle safe zones con l'intenzione di separare i comportamenti adeguati da quelli inadeguati al contesto spaziale «allo scopo di tracciare una linea che divide i cittadini perbene da quelli “permale”, ovvero coloro che per la loro condizione economica, etnica o per il loro stile di vita non sono funzionali alla valorizzazione dello spazio pubblico e per questo devono essere respinti nelle periferie e nei quartieri dormitorio»[4]. Gli inadeguati vengono quindi, ad esempio, allontanati dai quei luoghi in cui la spazializzazione del turismo standardizzato tende a incanalare i flussi turistici, ossia quei pochi spazi della città vetrina riconoscibili in cui si sviluppa la maggior parte dei flussi turistici: da una parte si vanno a qualificare alcune zone della città come meritevoli dell'azione pubblica, dall'altra implicitamente il resto della città – le sue zone periferiche e genuinamente popolari – viene individuato come meno degno.

Si sviluppa insomma una pulsione gentrificativa in nome di una specifica concezione di decoro, subordinata alle esigenze dei turisti e dei city users, che non è in grado (né ha l'obiettivo) di agire sulle cause di quello che viene qualificato come degrado urbano, ma che piuttosto ricerca un'etica puramente estetica, priva di contenuti. L'imposizione del decoro ha l'obiettivo “utopico” di mostrare una città assoluta, priva di imperfezioni, in cui il fluire delle attività di chi ci transita non deve subire interferenze fuori programma. Tramite la messa in scena della città vetrina, questa deve apparire agli occhi del consumatore/turista come spontanea. Questa “spontaneità” è a ben vedere artificiale, non avendo in una “natura incontaminata” o in delle “relazioni genuine” il suo perno, e vede piuttosto il suo centro nel consumo delle merci, siano queste panini, giacche di pelle o esperienze. Scrive Ascari a proposito di questo artificio:

perché l'impresa abbia successo […] è necessario che la presenza degli artifici o l'intera “sintesi della profusione e del calcolo”, con il loro “sistema di costrizioni”, vengano sottesi allo stato di natura, dove tutto ciò che potrebbe interferire con la presunta spontaneità delle merci rimane connaturato alla percezione dell'insicurezza: il vagabondo, l'ambulante, lo straniero.[5]

Lo spazio urbano in questo modo si divide in diversi campi semantici: da un lato l'ordine, il pulito, ciò che è a norma, e dall'altra il degrado, lo sporco, il disordine (Pisanello 2017). L'imposizione di questa idea di decoro contribuisce a rendere alcune zone delle città (comunemente i centri storici ricchi di attrazioni per il turista mordi e fuggi, ma sempre più anche le periferie) delle enclave benestanti, in cui il benessere si sostanzia nel proliferare di luoghi di consumo e in uno spazio estetico peculiare, in cui la figura dell'indesiderato non è un'entità tollerata volgendo lo sguardo da un altro lato, ma un escluso che non deve interferire con l'immagine della città per il turista. È inoltre tipico delle città turistificate contemporanee come questa indesiderabilità venga rivolta da una parte ai soggetti poveri, classici destinatari delle ordinanze relative al decoro, ma anche alla figura del “turista di massa”. Quella che rischia quasi di apparire come una risposta involontaria all'eccesso di turismo, si configura invece come la scelta volontaria di rendere (ancora più) elitari alcuni contesti urbani, dove il turista di massa viene individuato a sua volta come un soggetto che si differenzia dal resto dei turisti per essere sporco, confusionario, non in grado di pagare, poco desiderabile.

I turisti di massa vengono dunque accomunati ai soggetti indesiderabili, in un “governo attraverso le ordinanze” che paradossalmente pare estendere le dinamiche di espulsione ed esclusione dai non-cittadini immigrati ai non-cittadini non-immigrati, mettendo in discussione la distanza fra guests e hosts (Gargiulo 2015, Sassen 2015, Semi 2017, Ascari 2020). Ciò apre un potenziale fronte conflittuale che riguarda direttamente gli usi leciti dello spazio pubblico e le direttrici dello sviluppo territoriale: la posta in gioco è la città e il modo in cui essa è transitabile e vivibile (Novy e Colomb 2019). La logica del decoro fa infatti riferimento a una costruzione dello spazio pubblico come differenziale, ovvero come uno spazio all'interno del quale le persone possono essere regolate attraverso i comportamenti che mostrano: non si tratta pertanto di una privatizzazione in senso stretto – in quanto lo spazio rimane formalmente accessibile e transitabile – ma della costruzione di una dimensione al tempo stesso simbolica e pratica che ruota intorno alla possibilità e capacità di consumare secondo le norme (Wacquant 2000, 2006; Kohn 2004).

Osservazioni conclusive

Nel corso dell'articolo abbiamo cercato di mostrare come l'esplosione contemporanea di un certo tipo di turismo di massa stia ponendo seri rischi alla concezione di spazio pubblico per come questo è stato comunemente inteso sia dal senso comune che dagli apparati legislativi. Attraverso l'azione connessa delle pratiche gentrificative e del richiamo al decoro, lo spazio pubblico si trova incatenato in una disposizione, tanto fisica quanto relazionale, che simultaneamente si rende in grado di abilitare specifici tipi di attività e funziona come una barriera tecnologica per altri tipi di attività o gruppi sociali.

Da una parte, l'espulsione dei residenti e delle attività legate al quotidiano abitare la città mette in discussione non soltanto il valore pubblico degli spazi urbani sottoposti all'incessante martellamento dei flussi turistici, ma anche la stessa fruibilità degli spazi da parte di residenti che non hanno più né il modo né la voglia di vivere aree della città “asettiche” dal punto di vista comunitario. Dall'altra parte, i dispositivi del decoro urbano rendono evidente quanto quella che vuole essere una categoria morale abbia effetti sulla realtà fisica, topologica dei luoghi su cui la morale insiste. Ossia quanto il decoro, utilizzato come strumento di classificazione, riesca a lacerare lo spazio pubblico, permettendo così una selezione tanto degli spazi (pubblici, privati, o con attributi di entrambi) quanto dei soggetti che questi spazi li possono fruire, attraversare, popolare, modificare. La privatizzazione dello spazio che abbiamo descritto corrisponde dunque a una duplice attività regolativa, ottenuta da un lato limitando la mobilità e gli usi possibili dello spazio stesso, e dall'altro fissando l'immagine dei luoghi in un referente stabile, i cui significati hanno un grado relativamente basso di trasformazione e apertura al possibile, al negoziabile, al non-definito.

Bibliografia

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Note

  1. Offlaga Disco Pax, Cinnamon; in Socialismo tascabile (Prove tecniche di trasmissione), Santeria/Audioglobe 2006.

  2. Si vedano, fra gli altri: Aalbers, Manuel B. Introduction to the forum: From third to fifth‐wave gentrification, «Tijdschrift voor economische en sociale geografie», 110.1, 2019, pp. 1-11; Cocola-Gant, A., Holiday rentals: the new gentrification battlefront, in «Sociological Research Online», 21(3), 2016, p. 10; Cocola-Gant, A., Tourism gentrification, in «Lees», L., 2018; Phillips, M., Handbook of Gentrification Studies, Edward Elgar Publishing; Gotham, K.F., Tourism gentrification: The case of New Orleans' Vieux Carre (French Quarter), in «Urban Stud.», 2004, 42, pp. 1099-1121; Gravari-Barbas, M., Guinand, S., Tourism and Gentrification in Contemporary Metropolises, in «International Perspectives», Routledge, London 2017.

  3. Traduzione nostra.

  4. Alteri, L., Raffini L., Barile A., Il tramonto della città, DeriveApprodi, Roma 2019.

  5. Ascari P., Corpi e recinti. Estetica ed economia politica del decoro, ombrecorte, Verona 2019.