Per un percorso di ricerca sui territori metropolitani

Massimo Ilardi | Città ostile | Vol. I | Futuri urbani


Spazio e territorio

La metropoli è lo spazio liscio delle reti e del mercato globalizzato che ha abbattuto le mura della città del Moderno e del suo ordine. Ogni continuità con la forma urbana del passato è definitivamente tramontata. Fuori da questo spazio non c'è più nulla, né una natura incontaminata, né la possibilità di una fuga verso un altrove che non esiste più. A questo punto, parlare di crisi della “forma metropoli” non ha senso perché la metropoli è la “forma mondo” che ha dissolto ogni altra forma urbana. 

Ma quando dalle categorie astratte scendiamo nei recinti duri della realtà, allora non è più uno spazio liscio ma un territorio striato che ci si para davanti laddove si organizza la vita economica, politica e culturale della società e dove si proietta la potenza dei desideri individuali di una società del consumo che non possiede più valori per sostituirli o un futuro per rimandarli – perché per la cultura del consumo vige un solo tempo: quello del presente. Il territorio quindi è attraversato da numerosi e diversi particolarismi in continuo tra loro e che l'azione politica, oggi in crisi, non riesce più a mediare. 

È comunque il territorio, e non uno spazio generico o la nuda vita a entrare a pieno titolo nel campo della decisione politica. Il territorio è una categoria politica perché è attraverso sue rappresentazioni che le teorie politiche formano i propri concetti e disegnano i propri fini. Senza conflitto e senza politica non esisterebbe, ma si rimarrebbe nell'ambito della natura e del paesaggio – questi sì, ma solo questi, da poter considerare in alcuni casi come beni comuni. La città dentro il paesaggio è appunto l'utopia da realizzare per gli ultimi urbanisti perché permette l'estetizazzione del politico attraverso la ricerca dell'equilibrio, dell'armonia e della coesistenza degli elementi.

Spazio e territorio però, se tenuti insieme nella ricerca, pur nella loro contrapposizione svelano i meccanismi di evoluzione e di trasformazione della metropoli contemporanea.

Consumo

L'impraticabilità di un percorso che possa unire le due nature – quella dello spazio e quella del territorio – porta alla rottura di quella sintesi di economia e politica, di forza politica e categoria economica, sempre ricercata dal mercato come unica via possibile all'esercizio del suo primato, e dunque all'impossibilità del mercato stesso di realizzare la sua utopia: fare una società armonica e pacificata, assemblata dalle reti, dai flussi transnazionali, dai circuiti finanziari, dagli scambi commerciali. Uno spazio universale disincarnato, pura forma ideale, astratta, indifferente a ogni determinazione di luogo. È la contraddizione che porta dentro di sé a negargli questo passaggio: sono il consumo e la potenza dei suoi desideri – con le emozioni e le passioni che scatenano e che non conoscono scambi – a trasformare il territorio, là dove si proiettano immediatamente per essere realizzati i sogni e gli immaginari degli individui, in un terreno privilegiato per ogni tipo di conflitto e quindi, in un problema politico, la governabilità dello stesso territorio. Ciò vuol dire che il consumo si rende autonomo non solo dalla produzione ma dalle regole, dall'etica e dall'ordine del sistema di mercato. A questo punto il consumo si afferma con forza contro la dimensione economica e fuoriesce dalle sue regole. La contraddizione reale è oggi tra il sistema di mercato e la forma sociale che questo ha assunto negli ultimi anni.

Ma come definire il consumo fuori dai luoghi comuni che lo demonizzano? Il consumo è innanzitutto la negazione della proprietà, di qualsiasi proprietà, e determina la rottura decisiva tra proprietà e libertà; è l'atto distruttivo fine a sé stesso, fuori cioè da pastoie funzionali o giustificative, attraverso il quale una massa di individui dissolve quotidianamente e incessantemente non solo oggetti ed eventi ma affettività, valori, relazioni, emozioni; è l'ambito dove esplode il desiderio che scatena i conflitti che ridefiniscono la libertà materiale dell'individuo e il governo del territorio; è il terreno su cui si origina e si espande la metropoli contemporanea.

Periferia

Il territorio, a differenza dello spazio, è segnato da barriere, da forti diversità culturali e da contrasti sociali insanabili. Ai suoi margini, segnati dall'informalità e da una continua espansione e mutazione nei confronti di un centro storico che rimane invece immutabile, cresce la periferia. Non c'è dubbio che sia ormai divenuto anacronistico indicare la periferia come un luogo lontano dal centro storico per il fatto che la maggior parte degli insediamenti urbani, sia commerciali che abitativi, avviene ormai in periferia creando nuove centralità; né è possibile definirla come l'anti-città per il degrado dei servizi e delle infrastrutture, per l'assenza di luoghi di aggregazione o per la mancanza di un senso di appartenenza a uno spazio pubblico come bene comune, dato che questi stessi fenomeni li ritroviamo su tutto il territorio metropolitano; né, infine, la si può considerare come un luogo irrilevante e residuale di forme di vita se ha funzionato come grande laboratorio di innovazione e di mutamenti culturali – dalla musica alla moda, dal linguaggio all'arte. 

È necessario allora guardare in altre direzioni per stabilire che cos'è periferia e quali caratteri la definiscono. La periferia è lo spazio incontrastato del mercato e del consumo; è assenza di politica, dominio delle emozioni e soprattutto margine di un territorio desolato, duro, disordinato e minaccioso, che rompe le forme armoniche della città e segna i margini della metropoli così come la vita dei suoi abitanti. È qui che precipitano nella loro massima riconoscibilità le culture, le mentalità e i comportamenti di una società del consumo che modellano le forme di vita e quelle della quotidianità e che, seppure siano presenti e agiscano su tutto il territorio metropolitano, relegano – per la forma estrema con cui vengono qui vissuti – le altre zone della città a insignificante appendice. A questo si aggiunga l'assenza dello Stato, la mancanza di spazi pubblici e l'appropriazione di quei pochi rimasti da parte dei privati. Ma ancora: è proprio qui che la natura umana, fatta di interessi, ambizioni, passioni, violenza ed egoismi risalta in tutta la sua visibilità e immutabilità, e mostra con chiarezza il carattere soggettivo della giustizia, delle leggi e della ragione.

Dai quartieri periferici a Villettopoli

A Roma, le grandi architetture dell'edilizia pubblica – quelle della legge 167 come Tor Bella Monaca, Corviale, Laurentino 38, tanto per citare le più famose – si possono definire progetti con una forte carica politica perché esprimevano una visione diversa della residenza e della città che nasceva da un pensiero critico e da una ricerca teorica sorretti entrambi da una forte ideologia. L'obiettivo era di creare dei luoghi su cui instaurare ordine e misura attraverso una forma architettonica che riflettesse la propria natura politica; un uso strategico della forma che voleva contrapporsi alla frantumazione, all'esclusione e al degrado sociali attraverso l'esaltazione e la creazione di luoghi fortemente strutturati e politicamente determinati, forme chiuse in cui potessero svilupparsi comunità, solidarietà e autogoverno. Il progetto, dunque, come strumento critico che voleva trasformare la realtà, come tensione contro l'esistente, come giudizio sulla città alternativo all'immagine della metropoli del mercato. Rappresentavano insomma il tentativo di assicurare il dominio di un'idea sulla materia e sui meccanismi di riproduzione del mercato stesso. Ma i progetti, negli stessi anni (1975-85) in cui venivano creati e costruiti, andavano in direzione contraria ai desideri delle persone che sognavano non una vita in comune ma una casetta unifamiliare tipo Biancaneve e i sette nani, con fontanella e giardinetto annessi. E così alla fine sono rimasti dei grandi segni di architettura che hanno però perso la loro esemplarità poiché hanno fallito sul piano del progetto sociale che si proponevano di attuare.

Oggi però rimane un problema di non facile soluzione, e cioè che in queste grandi architetture abitano ancora migliaia di persone costrette a vivere e a convivere in spazi che non corrispondono ai loro desideri e al loro immaginario perché progettati per un'altra umanità che esisteva solo nei sogni degli architetti ieri, e oggi nell'inguaribile utopia di molti ricercatori sociali. E, per di più, persone obbligate a una mobilità precaria, perché questi quartieri sono privi di mezzi di collegamento rapidi ed efficienti con il resto della città.

A Roma, le grandi architetture dell'edilizia pubblica – quelle della legge 167 come Tor Bella Monaca, Corviale, Laurentino 38, tanto per citare le più famose – si possono definire progetti con una forte carica politica perché esprimevano una visione diversa della residenza e della città che nasceva da un pensiero critico e da una ricerca teorica sorretti entrambi da una forte ideologia. L'obiettivo era di creare dei luoghi su cui instaurare ordine e misura attraverso una forma architettonica che riflettesse la propria natura politica; un uso strategico della forma che voleva contrapporsi alla frantumazione, all'esclusione e al degrado sociali attraverso l'esaltazione e la creazione di luoghi fortemente strutturati e politicamente determinati, forme chiuse in cui potessero svilupparsi comunità, solidarietà e autogoverno. Il progetto, dunque, come strumento critico che voleva trasformare la realtà, come tensione contro l'esistente, come giudizio sulla città alternativo all'immagine della metropoli del mercato. Rappresentavano insomma il tentativo di assicurare il dominio di un'idea sulla materia e sui meccanismi di riproduzione del mercato stesso. Ma i progetti, negli stessi anni (1975-85) in cui venivano creati e costruiti, andavano in direzione contraria ai desideri delle persone che sognavano non una vita in comune ma una casetta unifamiliare tipo Biancaneve e i sette nani, con fontanella e giardinetto annessi. E così alla fine sono rimasti dei grandi segni di architettura che hanno però perso la loro esemplarità poiché hanno fallito sul piano del progetto sociale che si proponevano di attuare.

Oggi però rimane un problema di non facile soluzione, e cioè che in queste grandi architetture abitano ancora migliaia di persone costrette a vivere e a convivere in spazi che non corrispondono ai loro desideri e al loro immaginario perché progettati per un'altra umanità che esisteva solo nei sogni degli architetti ieri, e oggi nell'inguaribile utopia di molti ricercatori sociali. E, per di più, persone obbligate a una mobilità precaria, perché questi quartieri sono privi di mezzi di collegamento rapidi ed efficienti con il resto della città.

La ricerca sul campo portata avanti da molti anni da urbanisti, sociologi, antropologi e architetti ha lavorato molto e in profondità su queste zone denunciando il disagio sociale, la criminalità, il degrado, la ghettizzazione, ma nello stesso tempo mettendo in evidenza la loro grande vitalità, le iniziative sociali e di autorganizzazione che vi vengono promosse, la produzione culturale, la creazione di numerose progettualità. A facilitare la possibilità di effettuare queste ricerche hanno senza dubbio contribuito lo spazio delimitato e circoscritto del quartiere e la concentrazione delle persone e delle attività in un luogo ben definito. In altre parole, quelle forti strutture architettoniche possono pure essere rifiutate ma, nell'organizzazione della vita quotidiana, non si può sfuggire loro. D'altra parte era proprio questo uno degli obiettivi dei progettisti.Ma il punto è un altro e ben più complicato. Cosa succede se spostiamo la ricerca da questi concentrati di architettura e di umanità alla dispersione della stessa architettura e della stessa umanità su un vasto e indefinito territorio? Quali le ipotesi da fare? Quali gli strumenti da usare? Si apre per la ricerca uno spazio quasi inesplorato in quelle zone di territorio che chiamiamo villettopoli – costruite a immagine e somiglianza di una società molecolare – che hanno sostituito progressivamente l'edilizia pubblica, hanno dichiarato il fallimento dell'architettura nella costruzione della città e che sempre più disegnano i margini delle metropoli contemporanee.

La ricerca sul campo portata avanti da molti anni da urbanisti, sociologi, antropologi e architetti ha lavorato molto e in profondità su queste zone denunciando il disagio sociale, la criminalità, il degrado, la ghettizzazione, ma nello stesso tempo mettendo in evidenza la loro grande vitalità, le iniziative sociali e di autorganizzazione che vi vengono promosse, la produzione culturale, la creazione di numerose progettualità. A facilitare la possibilità di effettuare queste ricerche hanno senza dubbio contribuito lo spazio delimitato e circoscritto del quartiere e la concentrazione delle persone e delle attività in un luogo ben definito. In altre parole, quelle forti strutture architettoniche possono pure essere rifiutate ma, nell'organizzazione della vita quotidiana, non si può sfuggire loro. D'altra parte era proprio questo uno degli obiettivi dei progettisti.Ma il punto è un altro e ben più complicato. Cosa succede se spostiamo la ricerca da questi concentrati di architettura e di umanità alla dispersione della stessa architettura e della stessa umanità su un vasto e indefinito territorio? Quali le ipotesi da fare? Quali gli strumenti da usare? Si apre per la ricerca uno spazio quasi inesplorato in quelle zone di territorio che chiamiamo villettopoli – costruite a immagine e somiglianza di una società molecolare – che hanno sostituito progressivamente l'edilizia pubblica, hanno dichiarato il fallimento dell'architettura nella costruzione della città e che sempre più disegnano i margini delle metropoli contemporanee.

Un rovesciamento del percorso di ricerca

Se l'analisi fatta finora è corretta, va allora rovesciato il metodo analitico di solito usato nelle ricerche sulla città e sul suo territorio, un rovesciamento indispensabile per la comprensione dei processi sociali e delle trasformazioni urbane. Il percorso che va intrapreso non deve iniziare – come di solito avviene – dalla relazione tra sistema economico e forma della città, con dentro i fenomeni più vistosi ma più scontati e senza alcuna rilevanza politica come la speculazione immobiliare, la rendita e la gentrificazione, per arrivare poi – ma solo nelle ricerche più virtuose – alle figure sociali che li vivono e li subiscono. Il percorso è un altro: deve partire dal rapporto tra forma della città e composizione della soggettività sociale, con dentro le sue condizioni di vita, i suoi desideri, le sue passioni, le sue lotte e le sue forme politiche di rappresentanza (sempre che ve ne siano, e comunque sempre dimenticate nell'altro percorso di ricerca) per pervenire poi allo sviluppo e alla trasformazione economica. Il territorio metropolitano non nasce dal lavoro, dallo spirito imprenditoriale, dalla speculazione immobiliare, dalla pianificazione, dalle convenzioni geopolitiche o peggio – come molte storie ci vogliono raccontare – dalla natura, ma da un evento politico, e cioè – come è avvenuto in questi ultimi decenni – da una rivoluzione sociale o antropologica che l'ha provocato e che ha portato a un cambiamento della concezione dello spazio e della percezione del territorio che ha investito tutti i gradi e i campi dell'esistenza umana.

Negli anni 70 e 80 del secolo scorso, il passaggio dalla figura del cittadino – che era insieme produttore e militante e che nella fabbrica e nel partito costruiva stabilmente la propria identità – alla figura dell'individuo consumatore e distruttore non solo di oggetti ma di relazioni, identità e legami segna il primo passo verso questa mutazione antropologica. Il secondo passo avverrà con l'avvento del web e dei social media, con la loro assenza di confini e con la loro incapacità di formare una cultura politica.

Conflitti e pratiche di libertà

1981-2021: quarant'anni di rivolte urbane hanno attraversato le grandi aree urbane dell'Occidente annunciando la fine dei movimenti sociali. Il conflitto si trasforma in che – a differenza dei movimenti – non mira ad abbattere il sistema, non costituisce soggetti né istanze politiche che riescano a dare un futuro, una forma e un'organizzazione alla contingenza della lotta. Il punto di rottura con la politica è quando i rivoltosi, invece di dirigersi minacciosi verso la Bastiglia o il Palazzo d'Inverno, cominciano a prendere d'assalto gli shopping mall dei loro quartieri. La catastrofe della politica sta nel non aver capito questo salto d'epoca e nel non aver colto che – da quel momento in poi – la necessità non è più dettata dalla storia ma dal consumo e non risponde più all'assoluto ma ai desideri del presente; e che il conflitto non è più strumento istituzionale, non è più pilotato dalle ferree leggi del processo storico ma dal connubio esplosivo di pratiche di libertà e culture del consumo che espellono la politica e trasformano il conflitto in scontro incondizionato, totalmente privo di norme e garanzie, come incondizionati e privi di norme e garanzie sono il consumo e la domanda di libertà. Sono individui o piccoli gruppi ad agire: joy riders, yobbos, casseurs, motards, beurs, squatters, kraakers, black bloc sono alcune delle figure sociali che nel corso degli ultimi decenni hanno acceso la miccia delle rivolte partite quasi sempre dai quartieri periferici delle grandi concentrazioni urbane. E le rivolte non parlano, non scrivono, non stendono manifesti. I nemici sono le istituzioni e la polizia con i suoi metodi repressivi; gli obiettivi non sono mai il lavoro, l'uguaglianza o la speculazione immobiliare ma la libertà sulle strade, l'amore sconfinato per la violenza, il saccheggio sistematico di merci e centri commerciali che inserisce queste figure sociali dentro la cultura del consumo e li allontana da ogni rischio di determinismo economico. La rivolta non rivendica vittorie né piange sconfitte. Va considerata per quello che è, nella sua autonomia e nei rapporti che stabilisce: non con il tempo – come la rivoluzione –, ma con il territorio, con la sua assoluta ed esasperata esperienza del territorio. Perché rivolta e domanda di libertà coincidono e la libertà si misura appunto dal territorio che riesce ad attraversare fuori dalle istituzioni che vogliono responsabilizzarla e dalla legalità che vuole limitarla. Nella rivolta, invece, tutto è permesso e di conseguenza le pratiche di libertà trovano qui – nei luoghi dove esplode – il massimo dispiegamento. La stessa domanda di libertà, che non è mai astratta e universale, si riferisce sempre – come la rivolta – a luoghi e a tempi reali: dove chiedere libertà? Come raggiungerla? Quando?

La libertà, dunque, non è un viaggio interiore che si può fare ovunque. Si tratta di lotte anarchiche, afferma Michel Foucault, che attaccano una forma e una tecnica di potere che vogliono destituire e, dunque, hanno come obiettivo gli effetti di potere in quanto tali, fra cui il principale è il controllo dei corpi e del territorio.

Culture di strada

Un settore importante della ricerca riguarda la necessità di conoscere le culture di strada che si muovono sul territorio – continuamente e orizzontalmente – e affondano le loro radici nelle emozioni e nei desideri così come nel culto del corpo, della forza e del rispetto, formando una rete complessa e conflittuale di convinzioni, simboli e modalità di relazioni vissuti intuitivamente e schiacciati sul presente, condannando così all'estinzione l'agire politico che, per sua natura, è sempre rivolto al futuro. Si coagulano, da una parte, in culture che abbracciano tutti i campi dell'espressività – dalla musica al graffito, dalla moda all'arte – e, dall'altra, vanno ad alimentare comportamenti e mentalità individuali o di gruppo disancorate da interessi collettivi. Culture che non realizzano né organizzano azioni politiche, che non costruiscono società o soggettività ma appartenenze effimere e transitorie che tendono però a porsi come indisponibili e non negoziabili perché nascono dai desideri e non da convinzioni o da ideologie. Sono vere e proprie culture di resistenza all'ordine e alle sue regole e non definiscono, dunque, un universo coerente e cosciente di opposizione politica, ma un arcipelago spontaneo di pratiche di ribellione che nel lungo periodo si sono incarnate in uno stile oppositivo. Ma se dentro tutto questo – dentro questi modelli di vita – volessimo ostinatamente cercare un senso politico, uno spessore temporale o, addirittura, una filosofia della storia che li sostenga, allora saremmo completamente fuori strada. Molto spesso il solo scopo della violenza è quella di provocare e innescare la violenza stessa. Sul territorio, libertà e violenza molto spesso coincidono. 

Proprio la mancanza di un conflitto sociale, insieme all'impossibilità di tracciare riferimenti territoriali definiti e alla diffusione dei poteri, tolgono alla sfera politica un altro dei suoi fondamenti identificativi decisivi.


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