Alla ricerca di senso. Città e territorio post Covid-19 come spazio di relazioni

 Elena Battaglini | Città fragile | Vol II | Futuri urbani


Introduzione

Nella Storia comica degli Stati e Imperi della Luna di Cyrano de Bergerac (1657), un abitante lunare tenta di spiegare al viaggiatore protagonista del romanzo ciò che intende per intelligenza e dice:

Nell’Universo vi sono forse un milione di cose che per essere conosciute, richiederebbero in voi un milione di organi diversi fra loro (…) se io volessi spiegarvi ciò che percepisco con i sensi che vi mancano, voi ve lo rappresentereste con qualcosa che può essere udito, toccato, odorato o assaporato, e tuttavia non è nulla di tutto ciò.

Ben 364 anni dopo, l’esperienza della da Sars-CoV-2 ci interroga profondamente – come studiosi e cittadini – su cosa sia l’intelligenza, e cosa significhi la conoscenza a cui allude il meraviglioso dialogo tra il viaggiatore e l’abitante lunare. Stiamo infatti vivendo una transizione epocale, epistemica e ontologica: non una trasformazione ma una metamorfosi, un cambiamento di stato che osserviamo, consapevolmente o meno, senza poter dare immediate risposte, perché sono cambiate tutte le domande. Stiamo cioè vivendo un momento spartiacque tra un prima e un dopo, un momento in cui, essendo cambiate le cornici del senso di ciò che abbiamo esperito fino ad ora, si sono trasformati tutti i contenuti.

Tra le tante lezioni che ritengo stiamo apprendendo, una è quella della differenza che incorre tra la menzione di una parola e il suo uso. Una parola, come qualsiasi punto di osservazione, orienta, se non crea, un fenomeno. La pandemia ha tuttavia reso palese che le parole a cui eravamo abituati non corrispondono più all’esperienza che ne facciamo. La metamorfosi del mondo post-Covid19 si insinua negli spazi lasciati aperti da questa differenza.

Il termine “rigenerazione urbana”, ad esempio. In un’epoca in cui stiamo facendo esperienza del distanziamento sociale come strumento di prevenzione per città pandemic-proof, possiamo ancora intendere la rigenerazione quale processo attinente alla riqualificazione edile per mezzo, magari, di flagship projects? Con il termine smart city, invece, cosa intendiamo? La pandemia, appunto, ha demistificato l’uso di tutti i termini di quello che un grande sociologo francese, Michel Maffesoli (2021), definisce il catechismo del buon pensiero, del politicamente corretto, del ballo mascherato dominante.

Basta aver passeggiato durante uno dei tanti lock-down per una città come Milano che, per anni, ha costruito indefessamente la sua identità sui risultati dell’Icity Rank. O per Firenze, che l’ha invece puntellata con il monoteismo di città turistica. Bastano queste esperienze per comprendere come lo storytelling attorno alla smart city costituisse una narrazione lineare dello sviluppo urbano che, come un’autostrada, asfaltava biodiversità, vocazioni e identità specifiche di un luogo – in una parola, le sue “risorse di varietà” (Jakobs, 1969) – e che, procedendo dritta davanti a sé, uniformava e irregimentava tutto sotto l’egida di un governo automatico del sociale.

Rilanciando inaspettatamente l’importanza della rarefazione dei corpi sulla densità sociale e abitativa, il virus Sars-CoV-2 ha messo dunque in crisi il modello di vita che le città e l’abitare hanno rappresentato nella Modernità, nonché la stessa idea di sviluppo veicolata fino a adesso nelle politiche territoriali. Le misure sociali rese necessarie dalla pandemia stanno infatti sfidando, se non riconfigurando, le idee di socialità e di prossimità mobilizzate e indirizzate dalle politiche territoriali finora implementate, mostrando in concreto come i codici delle relazioni e dell’abitare vadano ripensati e ricostruiti con un focus specifico sui bisogni e le domande delle persone e delle comunità, a partire dagli effetti inattesi evidenziati dalle misure di recovery. Attraverso alcune prime riflessioni critiche, il mio contributo proporrà una riconfigurazione del termine “città e territorio” come spazio di relazioni, tentando di problematizzare le lezioni fin qui apprese dalla pandemia.

La pandemia come biforcazione evolutiva tra estrattività di valore e generatività sociale

La pandemia da Covid-19 ha messo in controluce termini mistificatori come rigenerazione urbana, smart city, progettazione partecipata etc., così come ha reso palesi le differenze tra persone, organizzazioni o intere comunità volte – che ne fossero consapevoli o no – alla generatività sociale o all’estrazione di valore.

In un nostro precedente saggio (Battaglini, 2020), pubblicato proprio a ridosso dell’esordio della pandemia, avevamo analizzato pratiche collaborative che davano conto di valori, norme e credenze condivise nonché del temperamento di individui e di comunità in cui l’immaginazione del futuro apriva ad azioni collettive di tipo “generativo”, attraverso forme di scambio win-win: una redistribuzione di esperienze, risorse e conoscenze ad ampio raggio attivata all’interno di progetti e iniziative territoriali tra i diversi soggetti coinvolti, che forniva loro la possibilità, la fiducia e la libertà di uscire da schemi mentali autoreferenziali per aspirare a una comune soluzione di un problema e, in generale, di pensarsi “altro”. Queste esperienze si connotavano anche per l’uso di ambienti digitali per individuare e infrastrutturare soluzioni e pratiche condivise, favorite da connessioni e relazioni non gerarchizzate tra le parti.

A fianco di questa modalità di collaborazione, di progettualità e di visioni del futuro (che nella tabella 1 abbiamo definito “socialmente generativa”) abbiamo altresì osservato come il cluster si differenziasse da altre modalità di stare al mondo (che abbiamo definito “estrattive di valore”) connotate da un’etica di fondo e specifiche caratteristiche, così come illustrato nella tabella 1.

Tab. 1 – Estrattività di valore e generatività sociale: una mappa concettuale (Battaglini, 2020)

 

ESTRATTIVITÀ

GENERATIVITÀ SOCIALE

TEMPERAMENTO/POSTURA GENERALE

Rigida.

Tendono a polarizzare il proprio comportamento su coppie antitetiche senza sfumature intermedie ad esempio: seduzione (manipolativa) o avversione (strumentale).

Desiderio di neutralizzare le differenze (Sennet, 2012: 18-19). Ipercontrollo delle emozioni da cui nasce la necessità di delegarle, estrarle, da persone, cose e attività vibranti e vitali.

Fluida, flessibile.

Capaci di modulare emozioni, attitudini e comportamenti a seconda del contesto in cui si trovano, proprio perché in relazione, anche empatica, con l’altro da sé.

Capacità di integrare e rielaborare, con successo, nuove informazioni, cognizioni nel confronto con individui o gruppi differenti dal punto di vista culturale, politico, etnico, religioso.

MODALITÀ DI SCAMBIO

Scambio dialettico sviluppato mediante un gioco di contrari che non permette nel gruppo l’integrazione delle differenze. (Sennet, 2012).

Scambio che mistifica il sacrificio di un qualche bene materiale per attivare forme di dipendenza: sacrificio “in attesa di risarcimento”.

Scambio a somma zero, in cui una parte guadagna a spese dell’altra. Scambio “asso piglia tutto”, in cui una parte sbaraglia completamente l’altra. (Sennet, 2012: 87).

Scambio disconfermante: negando ciò che l’altro asserisce o asserendo ciò che l’altro nega, con la “disconferma” si nega la soggettività dell’altro (cfr. Watzlawick, et al. 1967).

Ingabbiamento della sperimentazione e inibizione della collaborazione (Sennet 2012: 40).

Scambio simmetrico (win-win) in cui tutte le parti si avvantaggiano proprio “in ragione” delle reciproche differenze.

Scambio “differenziante”, in cui le parti in gioco prendono conoscenza delle loro differenze e si riconoscono nella reciproca diversità. (Sennet, 2012: 87)

Scambio “dialogico” che lancia in mezzo al campo opinioni ed esperienze in modo interlocutorio per cui, anche se non si raggiungono definizioni condivise, permette alle parti di prendere coscienza delle proprie opinioni, ampliando la comprensione reciproca e consentendo di riconoscersi nelle reciproche differenze (cfr. Sennet, 2012: 30).

MODALITÀ COMUNICATIVA

Show off performativo e auto-referenziale. “Feticcio dell’asseverazione” (Williams, 2002): impulso a far trionfare comunque la propria tesi, come se, indipendentemente dal contesto comunicativo, il contenuto fosse l’unica cosa che conti.

Ascolto dell’altro per la comprensione delle sue premesse, intenzioni e suggestioni in modo da fornire risposte appropriate.

Capacità di ascolto correlata a quella di saper individuare un terreno comune in ciò che l’interlocutore presuppone, piuttosto che ciò che egli dice espressamente, seguita dalla rielaborazione di quel presupposto esplicitato in parole (Zeldin, 1998).

MODALITÀ DI ADESIONE/ A GRUPPI E COMUNITÀ

Identificazione di una soluzione assertiva che comunque non modifichi l’identità precostituita del gruppo.

Ricerca e costruzione di soluzioni in cui tutti i componenti si riconoscono reciprocamente. Le scelte e le negoziazioni che si mettono in atto portano ad un arricchimento dell’identità sia dei singoli che del gruppo.

TIPO DI COLLABORAZIONE

Collaborazione in un gruppo la cui identità è fornita dalla ricerca di un nemico comune. Essa conduce a forme di antagonismo irriducibile del tipo “noi contro di voi” oppure si degrada in collusione (cfr. Sennet, 2012; Beck, 2016).

Collaborazione “impegnativa e difficile”, quella che in contesti, pur problematici, induce allo scambio, all’apertura verso la complessità attivando in tutti i partecipanti la possibilità di uscire dai propri schemi mentali (Sennet, 2012: 16-17). Aiuta i gruppi a prendere coscienza delle conseguenze delle proprie azioni.

ATTITUDINE VERSO L’ALTRO DA SÉ

Controllante/dominante.

Capacitante (empowering) (cfr. Magatti, 2018; Manzini, 2018).

RAPPORTO CON LE COSE

Pretesa a omologare, uniformare e mercificare ogni aspetto della realtà materiale e immateriale.

Capacità di cogliere le cose attraverso le diverse prospettive che esse possono assumere e di associar loro diversi valori e cognizioni in riferimento al contesto.

ATTITUDINE DI PROBLEM-SOLVING

Convenzionale: attraverso convenzioni e sapere implicito appreso nel proprio milieu culturale di riferimento (facendo “come si è sempre fatto”), seguendo le regole (o trasgredendole in toto), oppure “utilizzando dei sistemi di significati dati o appresi per via iniziatica o emulativa, attraverso figure significative di riferimento, pensando che non ci siano alternative a ciò che si sta facendo” (Manzini, 2018: 63).

Riflessiva: analisi critica dello stato delle cose, capacità di visione autonoma, ricerca di strumenti e disponibilità verso i sistemi di relazioni individuati la trasformazione del problema in collaborazione.

VISIONE DEL MONDO

Conservativa.

Trasformativa/Innovativa.

SENSO DEL FUTURO

Futuro avvertito come ignoto, ostile e rapace, coerentemente alla propria incapacità di emanciparsi dal controllo e dallo status quo. Impossibilitati ad immaginarsi diversamente, le aspettative che essi hanno, rispetto al futuro, sono integrate nel sistema presente in cui vivono. Immaginando il futuro come ostile, assumono il presente come una resistenza al nuovo, all’interno di una retorica Us vs Them.

Cogliendo le difficoltà del presente come insegnamenti da apprendere, hanno una visione realista del futuro in equilibrio tra desideri e senso dei limiti propri e relativi al contesto di vita. Immaginano il presente come atto di coraggio.

DEFINIZIONE DI POTERE

Possibilità di controllo se non di vero e proprio dominio (gerarchico).

Capacità e competenze di cui essi dispongono, messe in gioco nelle diverse arene decisionali collettive o individuali.

COSTRUZIONE IDENTITARIA DEL SÉ

Adattamento acritico alle identità e ai ruoli preconfezionati della società post-tradizionale (Beck, Giddens and Lash, 1994; Giddens, 1991; Lash, 1996).

Continuo adattamento attivo e riflessivo della propria personalità alle vicende di vita, caratterizzato da flessibilità, ma anche dalla congruenza con la struttura organizzata del proprio Sé. Riconoscono e accettano la complessità del mondo affrontandola “con una combinazione di intenzionalità e capacità di riconoscerne limiti, vincoli, ma anche opportunità” (Manzini, 2018: 79-80).

UTILIZZO DELLA PROPRIA CREATIVITÀ

Spinta a usare le proprie progettualità come auto-sfruttamento (estrattività auto-inflitta) nell’illusione della realizzazione personale: “Non la soppressione della libertà, bensì l’autosfruttamento massimizza la produttività e l’efficienza” (Byung-Chul Han, 2017: 25). Essa provoca stress da prestazione conseguente al raggiungimento di risultati mai veramente messi in discussione (denaro, successo, potere, prestanza fisica) (Byung-Chul Han, 2016).

Approccio progettuale alle proprie vite che parte dalla ridefinizione del senso delle cose e dal fissarsi degli obiettivi conseguenti. Di fatto, esso rompe gli schemi di comportamento frutto della colonizzazione della razionalità neoliberista ed “estrattiva” e, quindi, dai modelli culturali funzionalisti ed efficientisti che il neoliberismo ha fatto propri.

ATTEGGIAMENTO NEL CONFRONTO DEL BENESSERE

Eterodiretto, al fine di massimizzare la soddisfazione dei propri bisogni utilitaristici.

Basato sulla propria progettualità di vita come “soggetto attivo”, capace di mobilizzare le proprie risorse latenti e sviluppare sistemi in grado di promuoverle e sostenerle (Nussbaum e Sen, 1993).

PROGETTUALITÀ DI VITA

Basata su una rigida narrativa del Sé, è caratterizzata dal porsi obiettivi pragmatici attraverso la definizione puntuale di precisi mezzi per raggiungerli. Traiettoria di vita di tipo performativo in cui l’individuo non è in grado di riconoscersi e valorizzare gli obiettivi raggiunti tanto da agire verso la collezione di nuove mete di cui non è mai soddisfatto (cfr. Lévi – Strauss, 1962).

Definita attraverso obiettivi di medio-lungo periodo che si individuano sulla base della conoscenza di sé, dei limiti e delle risorse di cui si dispone e del proprio sistema valoriale. Capacità di ascoltare con attenzione la realtà e, nel caso, riorientare il proprio percorso. (Lévi – Strauss, 1962).

SENSO DI RESPONSABILITÀ

Alternanza di atteggiamenti polarizzati tra onnipotenza o passività, che denotano difficoltà nella comprensione sia della realtà del contesto di riferimento, sia delle conseguenze delle azioni proprie e altrui. Tendenza alla identificazione proiettiva: leggono negli altri l’immagine che non conoscono di sé e conformano propositi e gesti a quell’immagine.

Atteggiamenti e comportamenti eticamente reattivi, connotati dalla capacità di leggere e interpretare il contesto in cui si svolge l’azione.

PARADIGMA DI RIFERIMENTO

Meccanico riduzionista (ideal-tipo di riferimento: l’homo oeconomicus che agisce per la massimizzazione della sua utilità e della sua convenienza). Caratteristica prevalente di questa tipologia di individui è quella di non sapere riconoscere altri tratti della propria personalità, oltre al ruolo rigidamente dominante (Falso-Sé) che agiscono nella società, qualunque esso sia.

Sistemico – relazionale (ideal-tipo di riferimento: la mulier activa di Hanna Arendt, 1958, che dà senso alla propria vita agendo nello spazio pubblico e collaborando con gli altri per interessi o beni comuni.

Caratteristica prevalente di questa tipologia di individui è quella di essere caratterizzati da personalità ricche, organizzate e integrate con una spiccata eticità e senso della relazione.

Questa tipizzazione – che tratteggia le caratteristiche salienti di diverse modalità di collaborazione, visione di futuro, tipo di progettualità – ritengo risulti ancora più chiara e distinta proprio alla luce dell’esperienza della pandemia. Una crisi così complessa ha infatti messo in discussione ruoli, narrative anacronistiche e rendite di posizione di persone e organizzazioni: posture rigide e non adattive si sono scontrate con esiti diversi con la crisi; organizzazioni e persone omeostaticamente resilienti sono sopravvissute, mentre quelle aperte alle sfide e al cambiamento hanno saputo mettersi in discussione e hanno trasformato la crisi in un indicatore di nuove possibili direzioni.

Ogni volta che nella storia si sono avvicendati salti di paradigma, l’umanità si è scissa tra persone impaurite e costruttori di futuro: coloro i quali invece di ripiegarsi reattivamente in se stessi o di entrare in conflitto con fatti e persone hanno ritenuto più opportuno e sano utilizzare il disagio come indicatore di direzione. La pandemia ci ha spinto verso l’inesorabile scelta fra stare con gli uni o con gli altri.

Quale idea di città emerge dalla pandemia?

Come abbiamo visto dalla tipizzazione dell’estrattività e generatività sociale, uno dei criteri con cui discriminare i due cluster – nonché le loro visioni del mondo – è relativo all’apertura o meno a nuovi flussi di informazioni (e relazioni) e alla propensione all’innovazione. Come scrive Sennet (2012), le persone e le organizzazioni generative si distinguono per costituirsi come ecosistemi aperti che continuamente ridefiniscono le proprie strategie mentre le organizzazioni rigide, di fronte a una crisi, si caratterizzano per soluzioni assertive che comunque non modifichino l’identità precostituita del gruppo e, immaginando il futuro come ostile, assumono il presente come una resistenza al nuovo.

Come argomenta Ulrich Beck nel suo volume omonimo, la metamorfosi del mondo richiede la disponibilità alla trasformazione degli orizzonti, delle prospettive d’azione, delle cornici di riferimento: «di quelle coordinate che sono tacitamente assunte come costanti e intrasformabili» (Beck, 2016: 18). Da questo angolo di visuale, l’apertura al nuovo implica il coraggio di mettere in discussione tali “coordinate intrasformabili”, quegli assunti mentali che, come rotaie neurali, vincolano lo spazio (e la possibilità) che abbiamo di vedere, pensare e immaginare un futuro per le nostre città.

In un’epoca in cui stiamo facendo esperienza del distanziamento sociale come strumento di prevenzione dell’esposizione al virus Sars-CoV-2, molti di noi stanno diventando sempre più consapevoli di come la ragione discorsiva e disgiuntiva della pianificazione urbanistica abbia separato lo spazio pubblico e privato dai nostri tempi interni, tra mindscapes e landscapes, tra in-vironments e en-vironments, segmentando, zonizzando, concentrando la vita urbana in segmenti sconnessi che non seguono i ritmi dei bisogni e delle domande sociali nelle diverse forme con cui esse si esprimono nella quotidianità: apprendimento, lavoro, cura, socialità, leisure.

Politiche urbane “capaci di futuro” saranno quelle che, con pensiero critico, sapranno mettere in discussione le narrazioni del Novecento, ancora schiacciate sui settori, sulle cose e sul paradigma meccanico-riduzionista centrato sulla figura idealtipica dell’homo oeconomicus che agisce per la massimizzazione della sua utilità e delle sue convenienze. La grande sfida, oggi, è almeno comprendere come non si tratti di ripristinare una nuova Normalità: la pandemia ci ha infatti inesorabilmente spinto ad abbandonare un’economia fondata sulla produzione di cose e oggetti in favore di un’economia della conoscenza e di spazi di relazioni. In questo scenario, come sostiene il grande architetto Maurizio Morgantini, si tratta ora di superare la vecchia dicotomia in declino città-infrastruttura, e approdare alla metamorfosi evolutiva di infrastrutture polifunzionali degli spazi di relazione che diventino città viva.

La nostra società è ormai neo-manifatturiera: ancora si progettano, disegnano, costruiscono, producono, commercializzano e fruiscono manufatti; solo che ora i manufatti sono immateriali, o hanno componenti digitali, e sono sempre più legati al valore aggiunto di nuove conoscenze, servizi ed esperienze piuttosto che alla sola produzione di oggetti fisici. La pandemia sta quindi profondamente sfidando gli spazi monofunzionali urbani dedicati agli uffici e alla produzione, se non proprio il lavoro e l’occupazione in generale.

Come sostiene Paolo Zanenga: «il rapporto del lavoro con le imprese non consiste più nell’esecuzione di attività predefinite all’interno di un’organizzazione chiusa per produzioni con funzioni d’uso (employment), ma nell’entrare in un ecosistema per curarlo o generarne degli altri (engagement).» (Zanenga, forthcoming).

In tempi di cambiamento epistemico, di metamorfosi del mondo, cambiando le cornici di riferimento cambia tutto: la natura delle tecnologie, i processi di creazione del valore economico (da modelli lineari di produzione-possesso-consumo di beni a quelli di creazione-condivisione-fruizione), le reti globali (dalla globalizzazione delle merci alla globalizzazione dei dati), i valori patrimoniali (dalla proprietà degli assets produttivi al controllo del capitale cognitivo) e, infine, le organizzazioni che, da un modello lineare di sviluppo top-down, si aprono sempre più a modelli ecosistemici.

Questi cambiamenti da sistemi chiusi (privati e pubblici) a ecosistemi rendono i luoghi privilegiati della convergenza tra business innovation e social innovation, laddove le città diventano “spazi del vivere-sapere” e del pensiero collettivo che potrebbe organizzare l’esistenza – e la socialità – delle comunità umane (Levy, 2002). Dunque, non solo i territori sono gli ambiti in cui si manifestano gli impatti della trasformazione, ma potrebbero diventare essi stessi gli attori della trasformazione e i soggetti in grado di governarsi nel nuovo paradigma epistemico.

Le città, specie quelle metropolitane, sono il fulcro delle politiche relative alle sfide poste dalle transizioni socioeconomiche. Nella prospettiva della cosiddetta “economia della conoscenza”, soprattutto in ambito urbano, il trasferimento di conoscenze e know-how – nonché le attività di networking tra gli attori socio-economici – è da considerarsi cruciale. Esiste infatti una correlazione diretta tra i fattori di prossimità, capacità politica di discutere, proporre e agire, e la propensione del settore privato, della società civile, dei lavoratori, dei cittadini a partecipare attivamente a processi trasformativi.

Studi recenti (uno tra tutti Cohendet et al., 2010) sostengono che i fattori endogeni che guidano l’innovazione riguardino principalmente conoscenze place-based. Questo implica che i fattori di innovazione non siano puramente scientifici o industriali, ma soprattutto simbolici, poiché catalizzano significati condivisi, tradizioni, know-how locale e conoscenza tacita (Molotch, 2002).

Nei processi di innovazione, ciò che conta sono i passaggi intermedi necessari per riconoscere, attrezzare e sostenere le idee e i dispositivi socio-economici creativi e generativi che si producono in un ambiente locale e specifico. Questa prospettiva suggerisce come le innovazioni non siano solo quelle generalmente promosse da imprese o sostenute dall’universo organizzato della scienza, ma si basino anche sugli sforzi di un mondo informale – ecosistemi cognitivi o comunità di pratiche, (Wenger, 1998) – incorporati in un ambiente geografico locale da cui emergono e si sviluppano le idee creative. Quale che sia il principale promotore (aziende, centri scientifici o università), sono gli ecosistemi cognitivi o le comunità di pratiche che decodificano, traducono, collegano e rendono visibile la possibilità di implementare un’idea innovativa come prodotto, processo, servizio o procedura (Currid, 2007).

Sono le risorse cognitive e intangibili, le tradizioni intellettuali e le conoscenze tacite che derivano dal milieu locale a dare forma al particolare tessuto socialmente creativo che caratterizza ogni processo innovativo urbano. L’innovazione si esprime infatti in quei processi territoriali in cui idee, prodotti, servizi e modelli soddisfino specifici bisogni migliorando la capacità di agire del contesto sociale di riferimento. In questa prospettiva, poiché tali processi sono relazionali, si può anche dire che le nuove conoscenze da loro prodotte derivino dalle proprietà emergenti di tali relazioni.

In termini di conoscenza (e di razionalità), è molto diverso guardare la città dal punto di vista delle relazioni: se una città è fatta prima di tutto di relazioni, è importante considerarla come una rete in cui dare priorità innanzitutto ai collegamenti, e solo poi ai singoli nodi. Se la pandemia ci ha spinto a ridefinire i codici urbani del vivere insieme, i cambiamenti nei modelli di vita potrebbero trasformare i nostri codici di conoscenza in termini di costituzione reciproca di natura e cultura, di mente e materia (Bateson, 1979; 1987), di corpi e luoghi, tra la città contemporanea e i suoi abitanti.

Pensare la città dal punto di vista delle relazioni e non di singole parti slegate dal tutto implica, ad esempio:

1) ridefinire i codici di processi conoscitivi finora concepiti come linear-verticali in innovazione aperta (open innovation);

2) investire non tanto su intelligenze singole ma su quelle “distribuite” in termini di modelli di comportamento emergente;

3) tradurre/trasdurre idee, domande e risposte sociali diverse, unificandole all’interno di una stessa cornice di senso derivante da una progettualità di futuro negoziata e condivisa;

4) focalizzarsi e investire non tanto su singole idee ma su processi di sensemaking: c’è bisogno di orientamento, direzione, cornici di senso, architetture di idee, capitale semantico (Floridi, 2018). Non è una strategia puntare su singoli hubs, centri d’eccellenza, né regolare cosa si fa, mentre è strategico indirizzare lo sviluppo di cosa si produce dall’intelligenza distribuita.

La vera sfida, ma anche ciò verso cui molti di noi puntano, è quella di ripensare alle città come sistemi aperti:

come stelle polari con relazioni multiple ed estese, non ambiti delimitati da confini: questo il modello per una proposta adeguata a una rivoluzione spaziale, antropica, tecnologica, sociale, economica, molto più profonda e radicale di quella aperta dai viaggi oceanici, dal sistema copernicano o dalle successive rivoluzioni industriali. Questo vuol dire pensare i territori come sistemi che combinano contenuti, simboli e linguaggi per essere continuamente attrattivi, creativi ed espansivi (Zanenga, 2015).

Questo modello innanzitutto implica la consapevolezza che la tecnologia non sia un artefatto ma un ambiente, una rete di relazioni (e di processi) tra individui, comunità cognitive e di pratiche che interagiscono con idee, conoscenze, prodotti e servizi nonché le azioni che svolgono, le informazioni che usano e condividono, le modalità d’uso dei dispositivi che utilizzano, i canali attraverso cui comunicano.

Nella costruzione di idee creative e condivise di futuro, un fattore decisivo sarà quello costituito dalla “interpenetrazione” tra sistemi digitali decentrati – che mettono in rete l’intelligenza distribuita a livello locale a partire, ad esempio, dal ‘tessuto’ delle immagini cartografiche socialmente prodotte (GIS, PPGis) – e i sistemi locali che si rivitalizzano grazie alla cooperazione diffusa e ai nuovi valori d’uso che ne discendono. Se l’obiettivo sono città intelligenti in cui la qualità delle relazioni e dell’abitare sia infrastrutturata attraverso questa interpenetrazione, l’idea di città che emerge dalla pandemia si riferisce dunque a ciò che questi processi permetteranno di rifondare attraverso lo spostamento della tradizionale attenzione dal “dove” le comunità locali vivono a “come” le vivono.

Quale per delle città pandemic proof? Riflessioni conclusive

Quale governance, dunque, per lo sviluppo, l’innovazione e l’infrastrutturazione territoriale di relazioni sociali “distanti” ma inclusive e solidali? Per essere davvero smart la città dovrebbe:

  • coinvolgere in collaborazione win-win gli attori, in senso sia orizzontale che verticale, nel “farsi” politica pubblica;
  • riferirsi al tema dell’accessibilità delle infrastrutture e delle conoscenze innovative in termini di capacitazione (empowerment), specie dei gruppi e delle stratificazioni sociali più a rischio secondo il noto Capability Approach (Nussbaum e Sen, 1993);
  • aspirare a coinvolgere altri attori interni ed esterni (upscaling).

Un approccio alle politiche urbane da considerare nel “loro farsi” richiede, quindi, di interfacciare ambienti cognitivi e comunità di pratiche locali già attive nell’innovazione socio-territoriale. Obiettivo: veicolare la traduzione/trasduzione di nuove idee, consentendo l’upscaling istituzionale sia delle pratiche, sia delle comunità, gruppi, imprese profit o no-profit, oppure singoli individui o organizzazioni che le attivano/mediano/facilitano.

Per lo sviluppo e la coesione socio-territoriale, l’upscaling è un tema chiave. Come ho avuto modo di argomentare altrove (Battaglini, 2019), l’upscaling istituzionale, il potenziale innovativo, trasformativo delle pratiche sociali volte all’adattamento e alla mitigazione degli effetti anche di questa ultima crisi, dipende dalle possibilità che hanno questi soggetti di “riconoscersi” e, quindi, di legittimarsi all’interno di un contesto sociale. Dalla teoria sociale sviluppata da Honneth (1992) si evince infatti che per un mancato “riconoscimento” interno ed esterno, singoli individui, gruppi e organizzazioni innovative corrono il rischio di trovarsi isolate nell’implementazione del processo, prodotto o procedura organizzativa che hanno ideato in risposta a un problema.

Altro concetto-chiave in tema di sviluppo e coesione socio-territoriale è quello di empowerment sociale che trae ampiamente spunto dal concetto di capabilities (Nussbaum e Sen, 1993) attraverso cui interpretare, e qualificare, l’innovazione e la connessa riconfigurazione dei legami sociali a livello locale. In questa prospettiva, le politiche territoriali potrebbero essere definite smart non solo perché capaci di rispondere in modo innovativo a dei bisogni sociali, ma anche perché capaci di trasformare i legami sociali – alla base di quel bisogno – in senso capacitante, cioè attribuendo (direttamente o indirettamente) agli attori le capacità di essere o di agire attraverso il “riconoscimento” delle loro differenze – in termini di attribuzione di percezioni, valori e cognizioni al patrimonio locale.

Le potenzialità di empowerment sociale insite in un progetto urbano realmente smart si riferiscono, dunque, alla libertà – lasciata agli attori che lo implementano – di definirlo, ridefinirlo, trasformarlo e reinterpretarlo continuamente, evitando la strumentalità, la loro messa in dipendenza e, quindi, il misconoscimento dei diversi interessi e bisogni messi in gioco nel corso del processo. Il benessere che ne deriva si correla, quindi, anche alla crescente consapevolezza che possono avere comunità o organizzazioni locali delle proprie risorse, nonché delle proprie capacità negoziali e progettuali.

Un governance smart dello sviluppo socioterritoriale si può quindi sinteticamente definire come processo di negoziazione dei valori e degli interessi in gioco, diversamente attribuiti dagli attori sociali, per cui il “patrimonio dato” si moltiplichi in risorse “riconosciute e attivate” all’interno di una comune visione sul futuro di quello specifico territorio.

L’idea di sviluppo urbano che emerge dalla pandemia implica dunque che la progettazione urbana favorisca, e integri, le diversità e la variabilità di comunità e di luoghi nelle proprie visioni e strumenti d’intervento partendo dall’ascolto dei bisogni e delle domande sociali di chi vi abita. Una città intelligente è un territorio che interroga il progettista e stimola la sua capacità di ascolto. Per smart intendiamo proprio questa capacità, questo tipo di intelligenza da intendersi come facoltà, possibilità, di inter-legere, di infra-legere tra le peculiarità culturali, ambientali ed economiche di una città, nonché tra le aspirazioni e le specifiche domande di futuro dei suoi abitanti.

Inter-legere una città equivale dunque a comprendere che ogni azione territoriale ha un senso suo proprio, un capitale semantico (ciò che dà valore e senso a ogni azione) che deriva originalmente dalle relazioni complesse tra la natura e la cultura specifiche di ogni luogo e le visioni di futuro negoziate.

Smart cities, territori, comunità (e progettisti) intelligenti co-costruiscono il proprio sviluppo dando, e dandosi, la possibilità di scegliere tra più possibilità alternative comprendendole nelle politiche di cui si fanno promotori, nonché facendo proprio l’imperativo categorico di Heinz von Förster, scienziato-chiave della cosiddetta seconda cibernetica: «agisci sempre in modo da aumentare il numero di scelte». Ed è quest’ultima, forse, l’unica libertà a cui non potremo mai rinunciare e su cui ha senso investire.

Bibliografia

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