Raffaella Fagnoni | Città viva | Vol III | Futuri urbani
La concretezza del design non riguarda direttamente la materialità degli oggetti promossi o prodotti ma anche la progettazione di azioni concrete capaci di stimolare riflessioni e indirizzare comportamenti. Progettare Servizi e prodotti-servizi per la città e i cittadini è un modo per alimentare le opportunità di cambiamento nella città, offrire nuove forme di impegno critico e significativo in un momento di crescenti contraddizioni sociali. È il contributo all’idea di Criticity, che ha spinto ad approfondire lo sforzo speculativo e che partendo da più discipline investe la città, per ritornare ad avere la capacità di immaginare e progettare futuri urbani. Il testo approfondisce il tema dell’innovazione civica nella città attraverso la progettazione di servizi e prodotti-servizi. Analizza il declino dell’immaginazione e di come la recente pandemia abbia accelerato certi processi innovativi, proponendo una riflessione che si fonda su esperienze svolte a livello didattico e di ricerca. Il design può essere una forma di cura? può incoraggiare nuovi immaginari e di conseguenza indirizzare opportunità di cambiamento?
Declino dell’immaginazione
La nostra capacità di immaginazione sociale è andata indebolendosi progressivamente negli ultimi anni, come scrive Geoff Mulgan (2020): possiamo concepire grandi sviluppi tecnologici e scenari avveniristici, siamo impegnati a investire in visioni di future città intelligenti, di prodotti intelligenti, di case intelligenti. Attraverso la tecnologia si forzano e si sfumano i confini fra umano e artificiale, si prefigurano visioni apocalittiche legate ai cambiamenti climatici. L’immaginazione, (facultas imaginandi) secondo Kant, è la facoltà di rendere presente ciò che è assente[1]. Rappresentando ciò che è assente, abbiamo un’immagine nella mente, un’immagine di qualcosa che abbiamo visto e in qualche modo possiamo riprodurre.
La crisi dell’immaginazione sociale può essere interpretata come una naturale risposta alla pura e semplice complessità del mondo che lascia venir meno il senso dell’agire; come il risultato inevitabile dei fallimenti dei grandi sogni utopici del marxismo-leninismo che hanno fatalmente minato la fiducia nei grandi progetti sociali; o ancora come la conseguenza di spostamenti di potere che hanno teso a indebolire i veicoli dell’azione collettiva (Mulgan 2020). La spinta tecnologica non coincide sempre con l’innovazione, molte certezze consolidate in passato si stanno sgretolando, mettendo in luce i nodi che la democratizzazione apparente dell’accesso ai beni aveva offuscato. Avremo bisogno di riforme e innovazioni molto radicali per far fronte al cambiamento climatico e alla necessaria trasformazione che questo impone agli stili di vita, ai valori e all’organizzazione economica; e anche per affrontare altre situazioni, come il rapido invecchiamento della popolazione o le disuguaglianze sociali. Sono questioni urgenti di fronte alle quali si impone la necessità di una spinta forte e rapida nella nostra capacità di immaginare e costruire futuri possibili per fronteggiare queste sfide del nostro tempo, uscendo dalla rotta dei percorsi obbligati che limitano la capacità della società di reinventarsi.
Distanziamento sociale vs esperimento sociale
La necessità è la madre dell’invenzione e talvolta dell’immaginazione. Come è accaduto in altre epoche di crisi del passato, infatti, la pandemia ha indotto un’accelerazione dell’innovazione in molti settori. Si è diffuso l’uso dei dati per analizzare, tracciare e prevedere, per alimentare la ricerca e la capacità di cura. C’è stata un’esplosione di progetti comunitari per sostenere gli anziani isolati e fragili, spesso usando piattaforme e social media; c’è stata un’accelerazione nella progettazione di sistemi di welfare di massa per le imprese e per i cittadini, anche a livello di reddito di base, o sistemi di prestiti. Si sono diffuse pratiche innovative anche nei sistemi scolastici e formativi, arrivando alla normalità della formazione a distanza (FAD). Si sono sperimentate modalità di fruizione di beni culturali con sistemi virtuali a più dimensioni; si sono velocizzate le pratiche per facilitare l’uso dei droni; e così potremmo continuare con lunghi elenchi.
Ezio Manzini nei suoi più recenti interventi ha parlato dell’esperienza della pandemia in cui ci siamo trovati immersi come un esperimento sociale a livello mondiale, analizzandone in particolare le dinamiche urbane. Nonostante uno degli effetti della pandemia sia il distanziamento sociale, nei centri abitati si sono generate reazioni che lo hanno scardinato: pur mantenendo nei limiti il contatto fisico, si sono moltiplicate azioni per alimentare le relazioni sociali, cercando di vivere la distanza in modi alternativi. Il trauma collettivo subito nel primo periodo – il lockdown della primavera 2020 – ha spinto a cercare soluzioni per far fronte al distanziamento: dalle più banali, come dialogare e condividere tempo, prodotti, esperienze con i vicini di casa o di balcone, a quelle più ricercate come organizzare attività online, sviluppare servizi di prossimità, attività di sostegno reciproco, portando a maturare la consapevolezza che è la qualità dei rapporti che può fare la differenza e non la mera distanza fra i corpi.
Nella forzatura del distanziamento sociale si può distinguere l’opportunità dell’esperimento: pur procedendo a tentativi, con una scarsa conoscenza specifica di supporto al compiere le scelte più opportune, guidati dallo studio dei dati ma spesso in situazioni mutevoli con troppa rapidità, abbiamo vissuto – e stiamo vivendo – una trasformazione decisiva che si ripercuote sul quotidiano, sulle dinamiche dell’Abitare urbano, sul lavoro, sulla logistica, oltre chiaramente il welfare e la salute.
Considerare la pandemia, con i suoi effetti nefasti, come una sorta di esperimento sociale, significa prendere coscienza del fatto che ha generato trasformazioni che si sono rivelate decisive e impattanti sulla nostra socialità, sulle relazioni, sulle modalità di abitare spazi privati e pubblici; insieme a un avanzamento dell’alfabetizzazione digitale ha portato a riconsiderare la prossimità, la condivisione, le interazioni fra individui negli spazi ridotti, la micro-socialità. Ha ristabilito l’ordine sulla relazione fra la scala micro e quella macro, diffondendo la consapevolezza che i cambiamenti alla piccola scala sono il motore del cambiamento nel momento in cui le azioni si diffondono e si ripercuotono, a livello locale. Ed è questo l’ambito fertile in cui agisce il design attraverso interventi e azioni collaborative per lo sviluppo di servizi o prodotti-servizi, artefatti comunicativi abilitanti a livello di Innovazione sociale: perché attraverso le reti delle comunità le azioni a livello molecolare si propagano in altri contesti. Siamo di fronte all’opportunità di poter riprogettare la nostra vita in modo diverso, facendo tesoro di quello che abbiamo imparato pagando un caro prezzo e con molta sofferenza. A partire dal considerare questo periodo come un grande esperimento sociale a livello mondiale dovremo riprovare a costruire una visione collettiva tornando a immaginare futuri possibili. Appena la crisi pandemica tornerà a essere sotto controllo, l’attenzione si sposterà su un’altra serie di interrogativi: come potrebbero essere applicate ad altri problemi alcune delle innovazioni sviluppate per essa? Per esempio nei confronti del cambiamento climatico, dovremo re-immaginare gli strumenti adottati e le innovazioni maturate in questo periodo – dai dati e dal monitoraggio al cambiamento di comportamento e a nuove forme di sostegno statale – per accelerare il passaggio a un’economia a zero emissioni di CO2.
Per alimentare il cambiamento sociale, le proposte immaginative devono essere condivise da molte menti, diventando parte dell’intelligenza collettiva; solo in questo modo sarà possibile diffonderle e metterle in pratica.
Sapere saperi
I Polimates[2] erano le persone erudite e i sapienti, coloro che sapevano un po’ di tutto senza essere specializzati in qualcosa di particolare e che avevano la grande dote di unire i saperi. Erano menti universali dotate di sapienza poliedrica e di talento in diverse discipline; basti pensare a personaggi del passato come Leonardo da Vinci, di cui Benedetto Croce descrive la «bilateralità di attitudini, attitudine di pittore e attitudine di scienziato naturalista; e l’aggettivo “universale” esprime enfaticamente e iperbolicamente la maraviglia destata da quella duplice attitudine»[3].
I polimates sfruttano la conoscenza sui più svariati argomenti per produrre opere di interesse artistico, scientifico etico o sociale. Anche il design si fonda su saperi e competenze di diversa provenienza, essendo codificato come la più giovane fra le discipline creative, a differenza dell’arte e dell’architettura che hanno tradizioni millenarie. Ha assorbito e messo a sistema diverse conoscenze, ricavate da esperienze dirette o prese a prestito e riadattate da altre discipline, non soltanto quelle legate all’arte o all’architettura. Allo stesso tempo, il design si caratterizza per un’attitudine antica come la storia dell’uomo: quella per cui l’essere umano interagisce con ciò che ha intorno e lo modifica secondo le proprie esigenze.
Costruire manufatti è stata una delle attività che ci ha reso umani, nel mondo di oltre due milioni di anni fa, quando ogni cosa era soggetta soltanto alle trasformazioni imposte dal tempo e dagli eventi naturali. Il comportamento che ha distinto l’homo habilis, e il suo progredire realizzando strumenti, ha contribuito a formare il nostro cervello e con esso la mente che dà forma al nostro mondo mentale (Friedman 2016, p. 54).
Nel concepire nuovi prodotti o servizi per l’economia del quotidiano, il design assume come riferimento centrale l’individuo nella sua vita reale e concreta, e tramite momenti inventivi, connettivi, comunicativi, prospetta circostanze alternative arrivando a condizionare pratiche e comportamenti. Il mondo non è soltanto da osservare, descrivere, spiegare o capire: ciò che interessa le attività a livello teorico o pratico del design è la relazione che unisce l’essere umano con il suo ambiente naturale o costruito, intesa in una prospettiva progettuale, cioè migliorativa, fondamentalmente orientata al futuro. Oggi il design lavora per ambiti che sconfinano il campo più tradizionale del prodotto e dell’oggetto d’uso, cimentandosi in taluni casi in campi assolutamente distanti e differenti.
La città dei servizi
Siamo probabilmente alle ultime generazioni capaci di distinguere chiaramente cosa significhi vivere off-line e on-line. Le rapide evoluzioni e le rivoluzioni nelle tecnologie del digitale hanno cambiato i processi produttivi e i sistemi informativi, la smaterializzazione progressiva dei prodotti ha modificato il nostro modo di consumare, lavorare, viaggiare offrendo esperienze alternative legate alla sfera della sharing-economy e creando nuove logiche collaborative e di mercato.
Già da prima degli anni Ottanta si parla di “servitizzazione”, intendendo quel processo per cui un prodotto viene proposto in combinazione con un servizio (Cinquini, Minin, Varaldo 2011), spostando progressivamente attenzioni e relazioni sul piano virtuale.
In meno di trent’anni il sistema delle relazioni fra le cose e le persone si è completamente trasformato, con influenze pesanti sul modo di vivere, sulla società, sui mercati. E parallelamente si è modificato il lavoro dei designer: se prima era orientato principalmente verso la cultura del prodotto materiale (Hardesign), il design si è recentemente proiettato verso il progetto di beni più leggeri come i servizi o le azioni collaborative che generano esperienze (Softdesign), spostando i bisogni degli utenti dal possesso diretto alla pratica dell’accesso, tramite l’uso condiviso (Fagnoni, Olivastri 2019). Il Softdesign ha priorità diverse da quelle del passato. Mentre l’Hardesign era, ed è ancora oggi, rivolto al prodotto (materiale o immateriale) e al profitto che ne deriva, il Softdesign è orientato a intervenire nei processi decisionali e relazionali di organizzazioni, sistemi e istituzioni. Come sosteneva già Maldonado nel suo riesame del prodotto industriale, gli oggetti che oggi ci troviamo di fronte sono caratterizzati dal fatto che la componente virtuale è la sostanza, mentre la forma, ridotta al minimo, ne è il supporto (2011).
I cittadini reagenti
Mentre la politica sembra rinchiudersi su se stessa in un cortocircuito in cui si fatica a distinguere una visione di futuro, portando a un generale atteggiamento di apatia e stanchezza, si fanno strada le azioni a fini sociali di gruppi di cittadini su temi che spesso riguardano le dinamiche urbane, i processi di sviluppo locale, le politiche basate sull’innovazione civica e la Collaborazione fra pubblico, privato, collettività. Un esempio a tale proposito è il progetto Reagente[4], sviluppato a Genova nell’ambito della ricerca nazionale Miur/Prin Re-cycle Italy (2012-16). A partire da una indagine e dalla raccolta di dati sui gruppi di cittadini attivi, il progetto ha organizzato una serie di incontri e attività volte da una parte a sperimentare un processo di co-design coinvolgendo cittadini, gruppi, associazioni nelle pratiche di co-progettazione; dall’altra ha puntato a creare insieme un progetto per un marchio di qualità capace di definire e valutare le azioni e gli interventi prodotti dai gruppi che agiscono a livello cittadino e di innovazione sociale riutilizzando spazi dimenticati e offrendo servizi di assistenza, cura, per la cultura e l’abitare, per il lavoro. Reagente ha immaginato uno strumento concepito come un marchio, sviluppato con un processo inclusivo e partecipativo, per definire linee guida e requisiti di etichettatura per gli attivisti al fine di comunicare le loro azioni e diffondere valori condivisi. Un progetto che punta sulla prossimità, sul contesto locale e sull’attivazione delle persone, co-progettando con gli utenti, e coinvolgendo i cittadini come co-produttori di servizi e beni.
I Reagenti sono presenti in tutte le città, si stanno moltiplicando, sono cittadini attivi, innovatori sociali; il loro lavoro può essere una professione che richiede diverse competenze: saperi e saper fare interdisciplinare (sociale, culturale, progettuale, economico), saper fare rete (coinvolgendo altri cittadini e portatori di interesse), avere un approccio organico, olistico (in opposizione all’approccio lineare della Pianificazione), una professione che propone un cambio di paradigma dal fare a essere. I Reagenti credono in un modo di vivere la città da protagonisti, su misura, eticamente corretto. Agiscono per creare situazioni piacevoli, aperte, inclusive, e se ne prendono cura. Aspirano a un cambiamento reale, animati dalla volontà di investire sui luoghi e sulle persone per la qualità della vita. Vanno oltre le dinamiche bottom-up o top-down, creando connessioni orizzontali e partenariati fra mondi diversi (Fagnoni 2016).
Non si tratta di attivismo inteso come attività propagandistica o politica ma come indirizzo di un attuale civismo. Le azioni e le pratiche urbane in cui gruppi di cittadini si organizzano per “fare cose” sono entrate ormai nei bilanci dell’ordinario vivere la città: intercettano le politiche pubbliche, dialogano con le amministrazioni pubbliche. Molte di queste azioni partono dagli spazi vuoti, sono spesso scintille che attivano i movimenti offrendo occasioni ai nuovi soggetti sociali che operano in modo ibrido nella scena urbana, mescolando funzioni e servizi, culture diverse, pubblico e privato. L’abbandono crea degrado, pericolo, negatività, insicurezza, seguendo la teoria delle finestre rotte[5], che invita di fatto chi le osserva o chi è vicino a reagire attivandosi, come i Reagenti. Per alcuni pianificatori urbani si tratta di un modo per sperimentare possibili usi in una fase successiva di ri-pianificazione e di sviluppo. Per alcuni politici si tratta di un modo di risolvere problemi contingenti di degrado e carenze di servizi. Per alcuni progettisti si tratta di un ritorno alle pratiche dei movimenti DIY degli anni Sessanta e Settanta, per altri si tratta di opportunità professionali in cui poter offrire le proprie competenze. Per alcuni attori sociali e culturali si tratta di un rilancio innovativo e di innovazione sociale. Si tratta di fatto di opportunità nelle quali sperimentare le strategie più feconde per trasformare queste sfide in occasioni di rivitalizzazione urbana, con benefici per il territorio, i cittadini, la sicurezza, la sostenibilità.
Tutto ciò apre una serie di domande: si può sfruttare questo potenziale nelle città come strumento di sperimentazione per nuove politiche urbane e di gestione dei processi? Quali possono essere le migliori strategie di attuazione di queste dinamiche? Quali sono le opportunità di futuro che tali azioni offrono ai luoghi e ai cittadini?
Artefici di alternative
Il moltiplicarsi di iniziative di cittadinanza attiva, azioni partecipate in cui progettisti lavorano con i cittadini e per la città, reti di prossimità ed esperienze di convivialità urbana, apre una serie di opportunità per le pratiche di design e di conseguenza anche per la formazione e l’educazione in particolare nelle discipline del progetto. Sono iniziative chiamate a dare forma agli spazi e ai dispositivi, a riflettere sulle trasformazioni future o già in corso nella città attraverso un’ottica innovativa, a volte ribelle, tesa a indagare tattiche e strategie magari non codificate, ma radicate nella popolazione. Molte di esse riguardano servizi, funzionano attraverso prodotti-servizi, interessano esperienze che includono attività di comunicazione, allestimenti, pratiche collaborative messe in atto grazie alla sensibilità e alla buona volontà dei cittadini e dei gruppi sociali. Spesso sono legate all’impegno dei soggetti promotori e talvolta rimangono confinate all’interno di prospettive contingenti. Nascono per rispondere a delle difficoltà ma non sempre riescono a traghettare con efficacia il proprio impatto verso la condizione potenziale di cambiamento.
Si rende dunque necessario lavorare sulla consapevolezza, sul senso delle azioni che non sempre sono metabolizzate in modo condiviso, per far si che se ne possa valorizzare l’efficacia e che possano introdurre opportunità di cambiamento capaci di ridefinire in modo sostenibile i contesti urbani, le loro relazioni e le politiche urbane. Se le buone pratiche rimangono tentativi isolati, sia da un punto di vista progettuale che di transizione sociale, rischiano di ridursi a una dispersione di energie o comunque di rimanere in vita come buoni episodi isolati ma che non hanno effetti sul cambiamento[6]. Esse sono un’opportunità per i designer, i progettisti in generale, perché proprio per il carattere di spontaneità cui spesso sottendono, possono essere avvicinate a quella che Lévi-Strauss distingueva come arte utilitaria, distinguendola dall’arte colta e dall’arte primitiva. Tale arte è considerata campo d’azione del bricoleur[7], già definito nel suo significato originario, attestato fin dalla fine del Quattrocento come l’agire senza un progetto, oggi inteso come esecutore di piccoli lavori manuali e di riparazione.
Innovazione civica – innovazione sociale
Gli spazi di cittadinanza nel nostro tempo sono meno che in passato; tuttavia, ci sono molti segnali che lasciano intravedere la necessità dei cittadini di essere parte attiva, di essere ascoltati. Le trasformazioni recenti alimentate dalla pandemia hanno stimolato pratiche di innovazione civica, progetti e sperimentazioni di comunità che favoriscono la coesione sociale e spingono verso l’innovazione sociale.
Spesso vengono promosse come pratiche di innovazione civica attività e soluzioni organizzative legate alla Governance, guidate dalla tecnologia, basate sull’uso delle masse di dati prodotti dai nostri dispositivi sempre connessi. Oltre al tecnosoluzionismo (Morozov 2013) in base al quale si pensa che grazie alle tecnologie sia possibile risolvere qualsiasi problema, ci sono gruppi e reti di cittadini, piccole o grandi comunità locali che interagiscono con pratiche collaborative e interventi fisici oltre che virtuali in risposta alle loro esigenze, come ad esempio i parklets, le social streets, le portinerie di quartiere, gli orti condivisi, i servizi per lo scambio di beni, ma anche attività partecipative come i trekking urbani, in cui si stimolano i cittadini alla riscoperta dei propri Territori sviluppando una relazione collaborativa, consapevolezza sensibile del contesto, attraverso un progetto di un itinerario, lo sviluppo di un servizio.
La maggior parte di queste attività funziona tramite prodotti-servizi, oppure sono esse stesse dei prodotti-servizi, cioè oggetti o arredi che abbinano a una loro presenza fisica la possibilità di gestirne la fruizione o altre azioni tramite interfacce digitali, applicazioni, siti. La loro presenza a livello urbano propone stili di vita che possono alimentare processi collaborativi ma anche spingere verso la discriminazione se pensati per gruppi esclusivi. Del resto, la città è sempre caratterizzata da raggruppamenti e polarizzazioni sociali, fenomeni di gentrificazione, sprawl periurbani marginalizzati, vissuti con logiche spesso totalmente diverse. Parallelamente, ci sono comunità che si formano in rete, intorno a specifici interessi o attività legate al consumo o alla fruizione di beni: senza condividere necessariamente spazi fisici hanno interazioni quotidiane con un ruolo importante nelle relazioni sociali. Come già accennato, il lockdown e la pandemia hanno smosso l’interesse verso le pratiche di innovazione sociale dal basso, oltre che da quelle istituzionali: da una parte fondazioni, organizzazioni e amministrazioni promuovono inviti all’azione e bandi, proposte di crowdfunding; dall’altra le comunità di pratiche e le micro-comunità di luogo alimentano processi di co-design o azioni collaborative in cui i piccoli gruppi si attivano per rispondere alle esigenze che non trovano riscontro dalle amministrazioni o per promuovere e sperimentare altre pratiche innovative.
Informazione > formazione > cambiamento, dalla conoscenza alla coscienza
Il cambiamento passa attraverso l’informazione e la formazione, la scuola e l’università sono luoghi privilegiati in cui offrire opportunità per generare alternative, far conoscere e circolare esperienze, imboccare altre direzioni. È necessario sapere per cambiare, ma anche sognare nuovi sogni: «We need to dream new dreams», come hanno detto Anthony Dunne e Fiona Raby (2013, p. 2) recuperando la nostra capacità di immaginazione sociale (Mulgan 2020). Insistere con progetti speculativi, capaci di alimentare il dialogo, fa parte dei modi e degli strumenti che, come progettisti, possiamo utilizzare per contribuire a rendere possibili trasformazioni e cambiamento, spingendo il progetto oltre ciò che il contesto tecnologico e fattuale inquadra come nostro presente.
Abbiamo bisogno di ripartire dai saperi, da quelle conoscenze attraverso le quali la scuola e l’università sostengono gli studenti nel formare le proprie opinioni, senza tralasciare le abilità e le competenze, combinando consuetudini teoriche con attività pratico-sperimentali. Si tratta pertanto di un progredire dalla conoscenza alla coscienza che serve a comprendere il proprio valore e i propri valori, per far crescere e diffondere il Senso civico, coltivare quei saperi che formano persone capaci di scegliere.
Da diversi anni propongo agli studenti dei laboratori di design temi che riguardano le situazioni di crisi del nostro tempo, l’abitare la città e lo spazio pubblico, i servizi per vivere meglio le relazioni, per contribuire al welfare cittadino, per l’ambiente e l’economia circolare.
Negli anni trascorsi, sia con gli studenti dell’Isia di Firenze che con quelli dell’Università di Genova abbiamo lavorato sugli spazi pubblici, sulle filiere dei rifiuti, esplorando le possibilità che i servizi e i prodotti-servizi possono offrire a una idea di città più vivibile, dove concetti come la vicinanza e la comunità siano alla base delle relazioni e delle attività. Sono progetti che si relazionano con il territorio, pensati per sostenere iniziative per uno sviluppo locale, che seguono le direzioni della sostenibilità.
Alcuni dei progetti hanno avuto seguito e sono divenuti realtà, come ad esempio nel caso del progetto Surpluse[8] a Genova. Un progetto che punta sull’innovazione sociale e sull’economia circolare, con l’obiettivo di minimizzare lo spreco di risorse, attraverso la creazione e la diffusione sul territorio cittadino di centri di riuso e del riparo (previsti in tre diverse dimensioni S, M e L, per ciascuna delle quali sono previste attività differenziate) in cui si svolgono attività di raccolta, upcycle e vendita, organizzazione di corsi, attività laboratoriali di sperimentazione e fablab con la sfida più importante di cambiare la percezione dei rifiuti da parte delle persone. I centri Surpluse non sono luoghi dove le persone gettano via gli oggetti che vogliono smaltire (isole ecologiche) ma luoghi dove gli oggetti possono trovare una nuova vita, facendo leva sulla bellezza e l’estetica. Dal 2018 a oggi il progetto è stato studiato coerentemente con i processi di economia circolare, gli arredi dei centri (ex-botteghe o spazi in disuso) sono stati progettati ad hoc per essere realizzati con materiali di scarto e prodotti da cooperative sociali. Sono stati inaugurati due centri (uno nel 2020 a Coronata e l’altro nel 2021 a Palazzo Ducale) ed è in progetto la realizzazione di un terzo centro.
Passando a Venezia, il progetto “Santa Marta: qualcosa che merita”[9] è stato portato avanti con il Laboratorio di Design 2020-21 al corso di Laurea Magistrale in Design dell’Università Iuav di Venezia e ha coinvolto 60 studenti, cittadini e associazioni locali, con il supporto dell’ufficio Coesione Sociale del Comune di Venezia. Ne sono emerse 15 proposte progettuali per servizi, azioni collaborative, azioni culturali, la riedizione di eventi per il quartiere di Santa Marta, un quartiere veneziano liminare e difficile con una storia e un’identità popolare e industriale[10]. Le proposte scaturite dagli studenti attingono alle tracce di Santa Marta per dare valore a storie e materiali della tradizione, incentivando il senso di appartenenza; immaginano sistemi diffusi di orti/arredi urbani alimentati ad acqua piovana pensati per spazi e attività di interazione su misura; prototipano sistemi di elementi componibili facilmente trasportabili per allestire spazi e attività di interazione su misura; immaginano e organizzano un mercato basato sul baratto per incentivare un modello economico circolare di incontro e scambio, gestibile anche attraverso servizi digitali; progettano servizi che mettono in relazione le competenze dei residenti con i bisogni degli studenti o degli abitanti temporanei e viceversa. Una delle strategie introdotte prevede la riedizione di una festa di antica tradizione, simbolo di coesione sociale. L’evento, la festa popolare, è occasione per mobilitare relazioni e risorse, riappropriarsi di un luogo, è uno strumento catalizzatore, un’attività di produzione sociale in relazione allo spazio e alla sua (ri)appropriazione collettiva e ludica, alle reti locali di attori e alle catene di re-interazioni rituali. Proposte a degli stakeholder locali, alcune iniziative hanno riscosso un interesse concreto: in particolare il progetto Martamarcà[11] – per l’organizzazione di un mercato del baratto organizzato come festa cittadina – ha ricevuto un finanziamento per la realizzazione da parte di una fondazione bancaria. È stato sviluppato e portato avanti in una fase successiva a livello avanzato durante un workshop intensivo da un gruppo di 20 persone fra docenti, tutor e studenti ed è in attesa di migliori condizioni per la sua messa in pratica[12].
“BottegaAttiva” è un progetto promosso dalla CNA di Venezia (2021) pensato per rilanciare il ruolo delle botteghe nel quartiere intorno a via Piave a Mestre[13]. Ha coinvolto una rete di negozianti in un processo partecipativo condotto da un gruppo di persone del Master in Progettazione Partecipata (Propart)[14] dell’Università Iuav di Venezia con l’obiettivo di restituire alle botteghe un ruolo di presidio sociale, in quanto attività artigianali e commerciali di prossimità, attraverso lo sviluppo di prodotti-servizi sviluppati dagli studenti del corso di laurea triennale in design dell’Università Iuav di Venezia. Questo tipo di sperimentazione permette agli studenti di cimentarsi con tematiche e obiettivi più attuali, permette alle amministrazioni e ai cittadini di rendersi conto che il design ormai va oltre il progetto di prodotti materiali per il mercato, permette agli esercenti delle botteghe di attivarsi in prima persona e provare a cambiare le cose agendo direttamente in prima persona. Parlare di coesione vuole dire creare una base per una città di forti relazioni umane: un tessuto sociale vivo e in grado di affrontare le emergenze.
Ciò che accomuna queste esperienze è il fatto che trattano di design come bene comune, cioè design che prende in considerazione la comunità, dove il comune ha un ruolo di primo piano, nel senso di cum munus: un dono moralmente dovuto, un compito, un incarico, un dovere, un atto in una prospettiva relazionale di scambio. Se è il munus a unire, il significato per la comunità non starà tanto nell’appartenenza identitaria, quanto piuttosto nella reciprocità dell’obbligo donativo; la relazione comunitaria è un “dare-darsi”[15].
Anche il recente PNRR rivolge attenzione a questo tipo di iniziative, impegnandosi a sostenere progetti partecipati di rigenerazione urbana e attività a livello culturale, con il supporto delle comunità locali, spingendo alla formazione di percorsi di co-design con attori pubblici e privati, terzo settore, fondazioni e associazioni, università, centri di ricerca, istituti di formazione, professionisti, imprese.
Questo significa progettare non tanto come “fare” un oggetto o una cosa, come artefatti tecnologici, mezzi inerti e passivi per realizzare fini pratici, quanto piuttosto creare un argomento persuasivo che prende vita ogni volta che un utente usa un prodotto o servizio come mezzo per qualche fine (Buchanan 1989, Redstrom 2008).
Prospettive
Le dinamiche del progetto di prodotti servizi per la città e i cittadini hanno la prospettiva di:
- Avvicinare i servizi ai cittadini facilitandone la fruizione;
- Promuovere comunità, favorendo la socializzazione;
- Estendere la rete dei soggetti coinvolti, alimentando processi di inclusione;
- Collegare attività e/o aree di intervento differenti, attraverso la coordinazione.
Il design è una disciplina sociale, intreccia il materiale con il sociale attraverso i prodotti che hanno una presenza e un’azione all’interno dei sistemi collettivi in cui ci troviamo a vivere. Sorgono spesso domande relative al come il design influenza il nostro agire, il nostro uso delle risorse, le nostre scelte e le nostre libertà di partecipare al processo decisionale sociale, politico o economico, e la misura in cui sentiamo di avere potere sulle nostre vite. Il design è un agente politico, non è neutrale e democratico (Monteiro 2019, Escobar 2018, Manzini 2015, Winner 1979, Papanek 1973). Essere designer oggi significa custodire ciò che deve essere custodito, essere guardiani (Monteiro 2019, p. 11) e prendersi cura delle cose per prendersi cura delle persone che le utilizzano. Questa responsabilità è collegata all’intenzione e all’azione stessa di trasformazione che contraddistingue il design spostando il problema verso la necessità di mettere in relazione il potere di prendere le decisioni con le opportunità del progetto.
I processi di rigenerazione urbana richiedono consapevolezza civica, oltre che competenze tecniche, collegando la sostenibilità dei beni e dei processi alla sostenibilità dei luoghi, a sua volta connessa alle comunità locali.
Per perseguire quello che Escobar chiama “futuri che hanno un futuro” (2018) abbiamo bisogno di più coscienza civica, e di rimettere in relazione beni, luoghi, comunità, rispettando i principi di sostenibilità. Progettare per la città non è solo pensare prodotti ma sviluppare progettualità interdisciplinare. Partendo da piccole sperimentazioni e diffondendole si mostra come tutto questo possa accadere, interagendo con le amministrazioni locali per sostenere questo processo. Le pratiche collaborative e lo sviluppo di prodotti-servizi dal basso, con i cittadini, per i cittadini, emergono dall’interazione virtuosa tra sistemi tecnici ed economie di prossimità.
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Sanders Elisabeth & Stappers Pieter Jan, Co-creation and the new landscapes of design, in «Co-Design» 4:1, pp. 5-18, 2008.
Traldi, Laura, Il trekking Urbano come progetto di design partecipativo – in «design@large» 27.10.2021 – https://www.designatlarge.it/trekking-urbano-2021-31-ottobre-itinerari/
Winner, Langdon, The Political Philosophy of Alternative Technology: Historical Roots an Present Prospects, 1(1), 75-86. https://doi.org/10.1016/0160-791X(79)90010-1, 1979.
Note
- I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, trad. it. di Mauro Bertani e Gianluca Garelli, intro e note di M. Focault, Einaudi, Torino 2010. ↑
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Il termine “polimata” deriva dal greco πολυμαθής, traslitterato polymathēs, che significa “molto istruito”; l’etimologia di “polimata” è anche legata a uno dei sinonimi di polymathēs, ovvero πολυΐστωρ, traslitterato polyhístōr, che vuol dire “molto sapiente”. ↑
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B. Croce, Saggio sullo Hegel, Laterza, Bari 1948, p. 224, riportato nella voce “uomo universale” Wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Uomo_universale ↑
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Cfr. R. Fagnoni, Reagente, pratiche di design, sperimentazioni cittadine, prospettive politiche, Aracne, Roma 2016. ↑
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Cfr. George L. Kelling e James Q. Wilson. Broken Windows: The police and neighborhood safety. In «Atlantic Monthly» 1 marzo 1982, pp. 29-38. La teoria deve il nome al fatto che la presenza di una finestra rotta può indurre fenomeni di emulazione, portando a un progressivo degrado urbano e sociale. ↑
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Mastrodonato, Alessandra, Ex Ordium. Per un archivio della generatività sociale nelle periferie, Metis 2 2013. ↑
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Lévi-Strauss, Claude, The Savage Mind (1962), University of Chicago Press, Chicago 1966. ↑
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Nato nell’ambito del programma europeo FORCE Horizon 2020 (Cities cooperating FOR Circular Economy, 2016-21), il progetto intende sperimentare un modello di diffusione di comportamenti virtuosi: sensibilizzare le persone sull’importanza del riuso, del ciclo di vita dei prodotti. Progetto sviluppato da R. Fagnoni, C. Olivastri, X. Ferrari Tumay, commissionato da AMIU, azienda rifiuti del comune di Genova. Convenzione affidata al Dipartimento di Architettura e Design, Università di Genova, nel dicembre 2018. ↑
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Cfr. https://sites.google.com/iuav.it/design/design-open-lab/202021-primo-semestre/m1-design-del-prodotto-e-della-comunicazione ↑
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Cfr. http://www.iuav.it/NEWS—SAL/comunicati/2021/rassegne-s/RS-Santa-Marta-qualcosa-che-merita.pdf ↑
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Studenti: Carmelo Leonardi, Ornella Magliozzo, Valentina Paciaroni, Marika Troiano, Docenti: Raffaella Fagnoni, Paola Fortuna,Tutor: Damiano Fraccaro ↑
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Cfr. https://festivalsvilupposostenibile.it/2021/cal/511/welcome-design-workshop-wdw-2021-local-matters#.Yc0MnRPMLeo ↑
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https://www.ilgazzettino.it/pay/venezia_pay/dallo_iuav_alle_botteghe_idee_per_via_piave-6041391.html ↑
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Cfr. https://masterpropart.it/ ↑
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Cfr. voce Comunità in Enciclopedia Treccani – https://www.treccani.it/enciclopedia/comunita_%28Enciclopedia-Italiana%29/ ↑