L’evoluzione del movimento dei centri sociali in Italia: dalle occupazioni “polivalenti” (multitasking) agli spazi con specifica destinazione d’uso

Federica Frazzetta, Gianni Piazza | Città viva | Vol III | Futuri urbani


I movimenti delle società complesse sono profeti senza incanto. […] I movimenti sono un segno. Non sono il prodotto della crisi, gli ultimi effetti di una società che muore. Sono al contrario il messaggio di ciò che sta nascendo. Come i profeti, “parlano avanti”, annunciando ciò che si sta formando senza che ancora ne sia chiara la direzione e lucida la coscienza.

I movimenti contemporanei sono profeti del presente. […] Non hanno la forza degli apparati, ma la forza della parola. Annunciano il mutamento possibile, non per un futuro lontano ma per il presente della nostra vita

(Melucci 1991, p. 7)

Lo squatting è l'occupazione che prevede l'appropriazione e l'utilizzo di una proprietà senza il consenso del/la proprietario/a. Nello specifico, l'occupazione è una pratica politica che possiamo inquadrare all'interno dei movimenti urbani, intesi come

conflict-oriented networks of informal relationships between individual and collective identities, shared beliefs, and solidarity, which mobilize around urban issues through the frequent use of various forms of protests (Andretta et al. 2015, 202-203).

Essendo una forma di protesta, l'occupazione può essere utilizzata in diversi contesti e ha durate diverse. Occupazioni che hanno durata breve sono quelle delle piazze, degli uffici pubblici o di un luogo di formazione e istruzione (scuole e università); occupazioni invece che hanno (almeno nelle intenzioni) una durata più lunga sono quelle dei centri sociali o degli squat (per una tipologia, si veda il lavoro di Piazza 2012 e Pruijt 2013). In questo contributo parleremo dei centri sociali, nello specifico di quelli italiani. È possibile definire un centro sociale come

un grande edificio abbandonato precedentemente utilizzato per fini non abitativi (ex fabbriche, scuole, teatri, cinema, ecc.) che viene occupato da militanti della sinistra antagonista per auto-organizzare e autogestire principalmente attività politiche, sociali e contro-culturali con l'obbiettivo di praticare modelli organizzativi partecipativi e non gerarchici (Piazza 2012, p. 9).

I primi centri sociali nascono in Italia attorno alla metà degli anni 70 nell'ambito della cosiddetta “sinistra extra-parlamentare”. In quel periodo, l'Autonomia Operaia[1] è la rete di movimento che ha avuto una notevole influenza sui primi centri sociali, in quanto fortemente anti-sistemica e critica nei confronti delle istituzioni statali, dei partiti e dei sindacati (anche di quelli solitamente considerati vicini al movimento) (Mudu 2012, Membretti e Mudu 2014). In virtù di questa influenza culturale e ideologica, il movimento dei centri sociali in Italia si caratterizza sin da subito per il rifiuto della delega e della democrazia rappresentativa (considerati come strumenti per assorbire il dissenso sociale), per l'utilizzo di forme di tipiche della democrazia diretta e partecipativa, nonché l'uso di forme d'azione non convenzionali, anche perturbative e illegali (Membretti e Mudu 2014).

Sebbene nell'immediato si associno e si considerino i centri sociali esclusivamente come luoghi e spazi liberati, in realtà è bene considerarli come dei veri e propri attori urbani – e non solo – della protesta, organizzazioni di movimento impegnate in campagne di protesta locali, nazionali e transnazionali (Piazza 2012). Infatti,

le attiviste e gli attivisti dei centri sociali e le/gli occupanti di case sono spesso impegnate/i in più ampie campagne di protesta e movimenti sociali, contro il precariato, la speculazione urbana, il razzismo, il neo-fascismo, la repressione dello stato, la militarizzazione, la guerra, l'utilizzo del territorio contro gli interessi delle popolazioni locali, le riforme a favore dei privati nel campo educativo e universitario (SQEK 2010).

Sebbene i centri sociali si siano sviluppati in Italia, nel corso degli anni 70 in altri paesi europei si diffondeva la pratica dell'occupazione delle case, o squat, (Holm and Khun 2011, Pruijt 2013, Starecheski 2016); la mancanza di servizi che garantissero degli affitti accessibili ha portato questo tipo di occupazioni a una chiara connotazione di classe, che si è via via legata alle mobilitazioni dei/delle lavoratori/lavoratrici in diverse grandi città (Balestrini and Moroni 1997). Da un lato quindi i centri sociali, nati in Italia e sviluppatesi dapprima nell'Europa meridionale (Spagna e Grecia); dall'altro gli squat, che si sono diffusi dapprima nell'Europa settentrionale (Germania, Olanda, Danimarca, Francia, Inghilterra) (Piazza 2012). Con squat intendiamo:

un edificio per appartamenti, ovviamente vacante, che viene occupato da attivisti della sinistra radicale e antagonista (anarchici e autonomi) principalmente a scopi abitativi, le cui attività comuni (di solito al piano terra o nello scantinato) riguardano principalmente la gestione dell'edificio e, solo eventualmente, anche attività pubbliche; si tratta di un'occupazione politica perché non è solo un modo per soddisfare le esigenze di alloggi, ma anche per denunciare la speculazione edilizia, la mancanza di spazi sociali e abitativi, un tentativo di mettere in pratica modalità alternative di relazioni sociali, stili di vita e prassi politiche (ibidem, 9)

Sebbene si sia sviluppato con tempi e modalità diverse, quello degli spazi occupati e autogestiti è un movimento transnazionale a tutti gli effetti, che non coinvolge solo stati europei, ma anche extra-europei (Martínez 2013, SqEK 2013, SqEK et al. 2014, SqEK 2018).

Seppur con le dovute differenze, alcune caratteristiche appartengono a molti dei centri sociali e degli squat nati in Europa nel corso degli anni. Nell'analizzare il movimento delle occupazioni in Europa come un tipo di movimento urbano autonomo, Miguel Martinez sottolinea alcuni tratti in comune a diverse esperienze di occupazione in vari paesi europei (2013). Una prima caratteristica riguarda la disponibilità di spazi abbandonati da poter occupare. Sebbene questa possa sembrare una banalità, in realtà è un presupposto che poi porta ad altre considerazioni, come il tipo di proprietà (pubblica, privata, o altro), o il tipo di processo che ha portato allo svuotamento e al mancato utilizzo di certi spazi (speculazione edilizia, gentrificazione di un'area cittadina, o altri tipi di processi di accumulazione del profitto). Una seconda caratteristica riguarda il quadro legale del contesto in cui si svolgono le occupazioni. Infatti, ci possono essere leggi più severe che regolano l'occupazione degli spazi, leggi più permissive, o persino contesti in cui l'occupazione, in alcuni casi, è concessa o tollerata. Una terza caratteristica riguarda l'autonomia di queste occupazioni da partiti politici e media mainstream. Questo implica che le occupazioni preferiscano forme autonome e autorganizzate di comunicazione propria (invece che dipendere dai media mainstream) e, anche se l'autonomia dai partiti non porta automaticamente al rifiuto di un possibile dialogo (almeno non per tutti), questo significa che le occupazioni stabiliscono la propria agenda politica autonomamente da altri attori della partecipazione politica. Infine, una quarta caratteristica riguarda la capacità (e la volontà) di questi attori di legarsi ad altre reti e attori di movimento a livello locale, nazionale o transnazionale. La capacità di tessere reti con altri attori di movimento fa sì che gli/le attivisti/e delle occupazioni siano impegnati/e su temi di scala diversa, intrecciando questioni locali con questioni globali.

In questo contributo parleremo dei centri sociali in Italia come attori politici prefigurativi, evidenziando come, secondo noi, a partire dall'ultimo decennio si sia verificato un cambiamento del movimento, rispetto agli anni precedenti. Infatti, riteniamo che si sia passati dall'occupazione di centri sociali, che svolgono diverse funzioni (multitasking) e la cui destinazione d'uso è polivalente (quindi adibito a più usi), all'occupazione di spazi che hanno invece una destinazione d'uso molto specifica (palestre, studentati, consultori, ambulatori), senza per questo cessare di essere degli attori politici prefigurativi. Nel prossimo paragrafo ripercorreremo le diverse generazioni di centri sociali in Italia, proponendo quella che per noi è una nuova, distinta, generazione di spazi occupati.

Le generazioni dei centri sociali in Italia: verso una nuova generazione?

Dalla metà degli anni 70, periodo in cui nascono i primi centri sociali in Italia, fino ad oggi, il movimento ha spesso cambiato pelle, mutando alcune sue caratteristiche. È Mudu che prova, in diversi suoi contributi, a sistematizzare questi cambiamenti, proponendo la definizione di quelle che chiama quattro diverse generazioni di movimenti sociali, in base alla variazione di alcune caratteristiche del movimento, come l'espansione geografica delle occupazioni in Italia, i temi maggiormente affrontati e l'attività politica (locale, nazionale e transnazionale) prevalentemente portate avanti (Mudu 2012, 2017).

La prima generazione inizia proprio a metà degli anni 70 e arriva a metà degli anni 80. In questa fase, i centri sociali occupati in Italia sono molto pochi, per lo più concentrati a Milano. In questo periodo, l'attività dei centri sociali è molto influenzata dal lavoro politico svolto dall'Autonomia Operaia, quindi è molto legato a rivendicazioni e mobilitazioni di classe (campagne di protesta contro il caro vita, o la pratica delle autoriduzioni), ma anche molto attiva nel contrasto all'eroina, in campagne antifasciste, antimperialiste e, a partire dagli anni 80, contro il nucleare. Per quanto riguarda i temi relativi al livello internazionale, i centri sociali solidarizzano con molte lotte di liberazione nazionale e si interessano soprattutto dei casi della Palestina, dell'Irlanda del Nord e dei Paesi Baschi. È un periodo in cui la diffusione e, in generale, l'attività dei centri sociali è molto limitata, dunque anche la visibilità degli stessi non è molto elevata.

La seconda generazione di centri sociali riguarda tutta la seconda parte degli anni 80 ed è caratterizzata – oltre che dalle reti “superstiti” dell'Autonomia – da un lato dalle influenze del movimento punk e anarchico, dall'altro dalla mobilitazione studentesca del 1985. Il numero dei centri sociali aumenta e, oltre che a Milano, iniziano a proliferare a Roma e, verso la fine del decennio, anche in qualche altra città della penisola e della Sicilia. Per la prima volta, i centri sociali in tutta Italia si autodefiniscono allo stesso modo, usando le sigle CSOA (Centro Sociale Occupato Autogestito), riconoscendo come proprio simbolo un fulmine che rompe un cerchio. In maniera diffusa, all'interno dei centri sociali si sperimentano processi decisionali assembleari, prevalentemente di tipo consensuale, ma anche maggioritario, seppur raramente (Piazza 2013). All'interno degli spazi occupati si propongono una varietà di attività, da quelle più strettamente politiche (come dibattiti, assemblee, etc.), a quelle controculturali (concerti, mostre, sale prova, proiezioni), passando da quelle formative (corsi di musica, giocoleria, lingue, attività sportive). In questo periodo, quindi, si crea una rete di movimento che collega occupazioni che si trovano in città diverse, ma nonostante questo la visibilità e il riconoscimento politico di queste esperienze è ancora molto basso. Lo sgombero del Leoncavallo nel 1989 non solo decreta la fine di questa seconda generazione, ma è anche un punto di svolta. Lo sgombero coatto dello spazio, avvenuto nell'agosto del 1989, è stato caratterizzato dalla resistenza attiva delle/degli occupanti, garantendo per la prima volta una visibilità fino a quel momento mai avuta da un centro sociale sui media mainstream.

Lo sgombero (seguito dalla demolizione dell'edificio sgomberato, e dalla rioccupazione del Leoncavallo in altra sede), ha portato a una nuova ondata di occupazioni, questa volta in molte città italiane oltre Roma e Milano, che si è intrecciata con il movimento studentesco della Pantera[2]. È proprio dall'inizio degli anni 90 che emerge una terza generazione di centri sociali, che dura per circa un decennio. In questo periodo le occupazioni, ormai presenti in tutta Italia, arrivano a superare le 100 unità. Le attività dei centri sociali si moltiplicano, diventando un punto di riferimento per diverse contro-culture, e si tenta di ricostruire un network nazionale che acquista sempre più visibilità. Inoltre, la ribellione delle popolazioni indigene in Chiapas, iniziata nel 1994, è stato uno dei temi di scala internazionale che ha caratterizzato maggiormente le attività transnazionali degli spazi occupati in questo periodo. Se la prima metà del decennio è caratterizzata da un'alta proliferazione di centri sociali in tutta Italia, la seconda metà, invece, è contrassegnata dalla prima importante frattura all'interno della rete di movimento[3]. Infatti, sebbene per molti anni il movimento delle occupazioni in Italia mantiene una posizione critica e conflittuale nei confronti delle istituzioni pubbliche e degli attori convenzionali della partecipazione politica, le prime assegnazioni formali di alcuni centri sociali occupati da parte di alcune amministrazioni comunali – perlopiù di centro-sinistra – aprono un dibattito interno alla rete. Infatti, proprio in questo periodo, alla sigla CSOA si affianca la sigla CSA (Centro Sociale Autogestito), utilizzato per quegli spazi in cui è stata concessa una forma di assegnazione formale dello spazio. La scelta di accettare l'assegnazione ufficiale degli spazi, come anche alla scelta di alcuni centri sociali di sostenere alcune candidature alle elezioni comunali, insieme all'adesione di alcuni spazi alla “Carta di Milano”[4] nel settembre 1998, sono tutti eventi che hanno portato alla frattura del movimento. Da un lato i Centri Sociali del Nord-Est (CSNE) e il movimento delle Tute Bianche (che anni dopo diventerà la rete dei disobbedenti legata al portale di contro-informazione Global Project), favorevoli alla legalizzazione degli spazi occupati e disposti a interloquire con le amministrazioni locali “progressiste” e i partiti della sinistra radicale; dall'altro lato, i centri sociali che hanno preferito continuare l'autogestione negli spazi occupati, rifiutando la mediazione con le istituzioni pubbliche a vario livello. A parte gli anarchici, da sempre contrari alla legalizzazione degli spazi occupati, gli altri centri sociali di matrice autonoma, dopo qualche anno, formeranno una rete legata al portale di contro-informazione InfoAut.

A seguito di questa frattura, emerge una quarta (e ultima per Mudu 2012) generazione di centri sociali che si intreccia con l'attivismo del movimento alter-global a partire dall'inizio del nuovo secolo. Infatti, i centri sociali italiani (che in questa fase sono sempre più di 100 distribuiti un po' in tutta Italia), hanno un ruolo rilevante nel movimento transnazionale alter-global, e soprattutto nelle giornate di mobilitazione contro il G8 di Genova nel luglio 2001. Attività contro-culturali e una particolare attenzione a tematiche globali e internazionaliste sono le caratteristiche di questa quarta generazione di centri sociali. Nello specifico, si critica il processo di economica neoliberista, preferendo a questa la “globalizzazione dei diritti”. I temi particolarmente salienti in questo periodo sono proprio le politiche migratorie, la necessità di un salario minimo garantito a livello globale, la tutela dell'ambiente accompagnata da una profonda critica nei confronti del sistema di produzione neoliberista, e molti altri.

Il lavoro di Mudu (ibidem), pur riconoscendo un cambiamento in atto, si ferma qui, considerando come unica generazione quella che parte dall'inizio del ventesimo secolo. Dal canto nostro, riteniamo che invece sia emersa successivamente una nuova generazione di spazi occupati, la quinta. Alcune caratteristiche che Mudu segnala come dei cambiamenti, per quanto ci riguarda sono i primi segnali dell'inizio di una nuova generazione. Infatti, nell'ultimo decennio, il movimento delle occupazioni in Italia ha sviluppato delle caratteristiche peculiari. Questo processo di cambiamento si avvia a partire dal movimento studentesco contro la riforma Gelmini (2008-2010), che assicura un cambio generazionale anche all'interno dello stesso movimento dei centri sociali, per poi svilupparsi nel corso delle proteste anti-austerity durante gli anni 10 del nuovo secolo. Questa nuova generazione di attiviste/i si intreccia anche con quelli/e delle nuove ondate di occupazioni che, per la prima volta, almeno in Italia, non interessano più solo i centri sociali classicamente intesi. È il caso dell'ondata di occupazioni dei teatri, partite dal teatro Valle di Roma[5], degli studentati e delle occupazioni abitative che hanno caratterizzato il movimento per il diritto all'abitare. A partire dall'inizio degli anni 10 del nuovo millennio, queste ondate di occupazioni hanno avuto come caratteristica in comune la destinazione specifica dell'utilizzo degli spazi, a differenza dei centri sociali, in cui gli spazi hanno sempre avuto un utilizzo polivalente (funzione multitasking). Quindi i teatri che vengono occupati diventano teatri recuperati e autogestiti, come anche i cinema e altri spazi simili; alcuni edifici vuoti diventano studentati o occupazioni abitative, la cui destinazione principale è residenziale e non sempre gli spazi in comune vengono utilizzati per attività aperte al pubblico (come accade invece negli squat), ma rimangono semplicemente a disposizione degli/delle abitanti del palazzo o, al massimo, del quartiere (Piazza et al. 2016). Oltre alla destinazione d'uso, anche il modo di nominare questo tipo di occupazioni è cambiato, evitando l'utilizzo dell'etichetta “centro sociale”, per lasciare il passo ad altri tipi di etichette e nomi (spazi liberati, laboratori sociali, spazi sociali, ecc.). Nel corso del tempo, abbiamo notato una sempre più frequente identificazione degli spazi occupati con la destinazione d'uso pensata per questi, anche nel caso di alcuni centri sociali r-esistenti, che identificano il luogo non tanto col concetto di “centro sociale” quanto col progetto di varie attività come l'ambulatorio popolare, lo sportello legale, il consultorio autogestito o altre, che hanno sede in quello spazio. Inoltre, la legalizzazione o meno degli spazi occupati non sembra essere più una questione dirimente all'interno del movimento, in quanto non crea più quella netta divisione tra pro e contro[6]. Dunque, se l'occupazione degli spazi abbandonati continua a essere una forma di protesta utilizzata dai movimenti urbani, l'occupazione degli edifici (anche se meno utilizzata) oggi non riguarda più prevalentemente i centri sociali “polivalenti” o multitasking nati a partire dagli anni 70 in Italia, ma progetti ben più specifici; anche la costruzione dell'identità nel gruppo di occupanti è meno legata esclusivamente allo spazio, quanto più all'intervento territoriale intrapreso (lotte per il diritto all'abitare, dei movimenti territoriali, femministi e transfemministi, dei/lle lavoratori/trici, etc.).

L'azione prefigurativa dei centri sociali

Il concetto di , in riferimento alla politica, ha seguito un lungo processo di trasformazione (per una panoramica, si veda il lavoro di Yates 2020). Una prima definizione di politica prefigurativa è stata proposta da Boggs, considerandola come «the embodiment, within the ongoing political practice of a movement, of those forms of social relations, decision-making, culture, and human experience that are the ultimate goal» (1977, p. 100). Sebbene questa definizione proposta dall'autore si riferisse ad un contesto e un caso studio specifico (come l'esperienza della Rivoluzione russa e dell'URSS), questa è stata più volte ripresa. Nel corso degli anni, l'azione prefigurativa della politica è stata sempre più spesso applicata alle pratiche dei movimenti sociali, nello specifico dei Nuovi Movimenti Sociali (Melucci 1989, 1996). Negli ultimi anni, è stato oggetto di interesse anche l'azione prefigurativa del movimento alter-global (Della Porta 2007) e dei movimenti contro l'austerity (Della Porta 2015). In altri termini, possiamo definire la politica prefigurativa come

a political orientation based on the premise that the ends a social movement achieves are fundamentally shaped by the means it employs, and that movements should therefore do their best to choose means that embody or “prefigure” the kind of society they want to bring about (Leach 2013).

Come già specificato all'inizio, i centri sociali possono essere considerati come spazi, quindi luoghi fisici, ma devono anche essere considerati come attori politici. I centri sociali sono spesso considerati come fattori che contribuiscono al cambiamento delle città (Andretta et al. 2015, Gargiulo e Cirulli 2016, Giannini e Pirone 2019, Mudu e Rossini 2018, Piazza 2018), aventi anche una chiara funzione prefigurativa (Mudu 2014, 2017). Seguendo l'evoluzione e la trasformazione dei centri sociali, anche la loro azione prefigurativa è cambiata nel tempo. Facendo una riflessione generale, al netto delle differenze tra le diverse aree politico-ideologiche di provenienza, riteniamo che l'azione prefigurativa dei centri sociali, nel tempo, sia stata (e in parte sia) incentrata su fronti e temi diversi.

Nelle prime generazioni di centri sociali (soprattutto le generazioni a cavallo tra gli anni 80 e 90), la pratica dell'occupazione era soprattutto legata a un nuovo modo di intendere le relazioni sociali, a nuovi modi di socializzare e fruire eventi culturali di vario tipo, slegati dalla logica del profitto. Non a caso, l'autogestione diventa non solo un modo per identificare gli spazi occupati (infatti, si parla di CSOA e CSA), ma è una pratica politica. Autogestire uno spazio vuol dire condividere, in maniera orizzontale ed equa, la gestione di uno spazio, delle sue attività, ma anche della sua “vita politica”. Significa prendersi la responsabilità, condivisa, di quel luogo, rifiutando i meccanismi della delega. A partire dalla critica nei confronti della democrazia rappresentativa, l'autogestione – insieme a processi decisionali consensuali e deliberativi (Piazza 2013) – rappresenta un modo per sperimentare un modello organizzativo (e relazionale) diverso, orizzontale e partecipativo, non più basato sul principio della delega, sulla gerarchia e sulla disparità di potere e di risorse. Dalla critica al sistema capitalistico e dall'assenza di luoghi d'aggregazione che non siano legati al consumo di un bene, nasce un modo alternativo di relazionarsi e socializzare all'interno di questi spazi, e di fruire anche di diversi tipi di attività contro-culturali. I centri sociali diventano luoghi di incontro, ma anche luoghi dove subculture, controculture e varie espressioni artistiche trovano spazio per esprimersi (Mudu 2004). Non a caso, i centri sociali incrociano la subcultura punk e skinhead, ma anche quella hip hop. Nelle sale prova nascono e crescono band che poi avranno anche successi importanti (come i 99 Posse, tra gli altri), si organizzano concerti, presentazioni di libri, mostre, proiezioni con ingresso gratuito, a offerta libera o con prezzi molto bassi. L'intento di queste attività, infatti, non è creare profitto, ma rendere accessibili quegli eventi a quante più persone possibile, come anche dare spazio a stili musicali e tendenze artistiche non mainstream, che non trovavano spazio altrove.

Col passare del tempo, questo tipo di prefigurazione si è intrecciato con altri tipi di prefigurazione che hanno dato vita a forme inizialmente definite come welfare from below. Alcuni centri sociali, a partire dai CSNE, hanno iniziato a offrire alcuni servizi all'interno dei loro spazi occupati, come doposcuola per bambini, corsi di italiano per migranti, sportelli legali, ecc. Attività di servizi che hanno dato vita a cooperative, associazioni formali, e che hanno anche riscontrato il riconoscimento (e talvolta anche il supporto economico) di qualche amministrazione locale, diventando dei veri e propri progetti che hanno portato alla costruzione di rifugi per persone senza fissa dimora, corsi professionalizzanti per persone migranti ecc. Sebbene sembrerebbero dei semplici servizi offerti a chi ne ha bisogno, queste attività costituiscono forme di welfare from below¸ il cui obbiettivo è promuovere «the rights of social citizenship for those social subjects generally excluded from welfare benefits such as migrants, precarious workers and unemployed» (Montagna 2006, p. 300). I target di questi progetti e servizi, quindi, sono quelle categorie spesso escluse dal welfare statale; l'obiettivo non è soltanto quello di “non lasciare indietro nessuno/a”, ma anche quello di proporre modelli di welfare che non escludano nessun tipo di categoria sociale e soggettività.

Lo sviluppo di queste forme di welfare from below è stato aspramente criticato da molti altri centri sociali, appartenenti alle aree anarchica e autonoma, soprattutto dopo la firma della “Carta di Milano”. Le maggiori criticità riguardavano, da un lato, il paventato rischio di un indebolimento del livello di conflittualità; dall'altro, il riconoscimento (e il sostegno) da parte di alcune amministrazioni locali era considerato un'arma a doppio taglio, e un possibile strumento di ricatto che avrebbe limitato l'autonomia gestionale. Nonostante queste criticità, col tempo anche alcuni di questi centri sociali più radicali (soprattutto quelli autonomi) hanno iniziato a promuovere attività simili, rifiutando per molto tempo qualsiasi tipo di riconoscimento o dialogo con le istituzioni. Basate su una militanza volontaria e gratuita, i centri sociali che hanno iniziato a proporre attività – non formalizzate/legalizzate – come corsi di italiano, sportelli legali, doposcuola ecc. sono effettivamente aumentati. Considerando la natura non istituzionale, ma anzi fortemente critica, possiamo parlare in questo caso di self-organized o self-managed welfare, il cui obbiettivo non è sostituirsi allo stato, ma fare in modo che le persone si auto-organizzino per soddisfare i loro bisogni e rispondere alle loro esigenze, ma anche per reclamare i propri diritti e pretendere soluzioni (Piazza et al. 2016). Anche in questo caso, nell'auto-organizzare alcuni servizi, l'idea non è solo quella di rispondere a esigenze materiali, ma anche quella di proporre delle modalità alternative per rispondere a quelle esigenze (in questo caso, attraverso il coinvolgimento diretto delle persone che usufruiscono dello stesso servizio). La partecipazione diretta e l'auto-organizzazione, anche in questo caso, sono due capisaldi delle visioni proposte dai centri sociali.

Come abbiamo già avuto modo di sottolineare nel paragrafo precedente, i centri sociali nel tempo hanno mutato forma e ruolo, passando da occupazioni “polivalenti” e multitasking (quindi con molte attività concentrate in un unico spazio che svolge varie funzioni) a occupazioni la cui finalità della destinazione d'uso è ben chiara e specifica. Soprattutto con la crisi del 2008-2010, l'occupazione degli studentati e delle case diventano non solo un modo per rispondere a un'esigenza materiale (la necessità di avere un tetto sopra la testa), non solo un modo per sperimentare forme di auto-organizzazione orizzontale, basate su metodi decisionali partecipativi e consensuali, ma anche un modo per “dare casa” a pezzi di comunità che condividono lo stesso sistema di valori antifascisti, antisessisti, antirazzisti e anticapitalisti. Esattamente come per le occupazioni abitative, anche le occupazioni di palestre popolari, mense, consultori, ambulatori sono tutti spazi strettamente legati ai servizi e alle attività che offrono (non più polivalenti, ma specifiche), che però non hanno l'intenzione di sostituirsi allo stato. Spesso gestiti da militanti su base volontaria, grazie all'aiuto di persone esperte e professionisti/e, sono spazi nei quali si propongono dei servizi (corsi sportivi, sportelli di aiuto legale, consulti medici, etc.), ma che basano la propria attività su un'idea di città e di società ben precisa, che parte da una forte critica a quella vigente. Come in passato, la critica al sistema capitalistico è molto aspra, come anche alla gestione dello stato e del suo sistema di welfare. Nell'ideazione e implementazione di questi progetti, si propone un modello di relazioni orizzontali e partecipative, il cui orizzonte politico è anticapitalistico e contrario ogni forma di razzismo, sessismo e fascismo.

Negli ultimissimi anni, abbiamo inoltre notato alcune tendenze rilevanti.

Se da un lato le occupazioni sono effettivamente diminuite, dall'altra gli ultimi tentativi più o meno riusciti di occupazione hanno riguardato soprattutto reti e progetti (trans)femministi (Curcio 2019, Koyama 2020). Per fare alcuni esempi: Mala Servanen Jin, casa delle donne occupata la prima volta a marzo 2017, e la Limonaia, spazio transfemminista occupato nel 2017 e sgomberato nel 2021, entrambi a Pisa; la casa delle donne di Alessandria, occupata nel 2018 e dal 2021 sotto minaccia di sgombero; Lucha y Siesta, la casa delle donne di Roma che, negli ultimi anni, ha subito continue minacce di sgombero; il consultorio Mi Cuerpo es Mio, nato all'interno dello Studentato Occupato 95100 di Catania all'inizio del 2020; La Vampa a Napoli, casa femminista occupata all'inizio del 2020; la MagniFica Occupata, casa delle donne a Firenze. Questi sono sia spazi occupati dopo un tentativo di assegnazione di edifici pubblici in disuso, sia in seguito alla revoca dell'autorizzazione dell'utilizzo di uno spazio, oppure luoghi in cui le attiviste rivendicano la pratica dell'occupazione fin da subito come un mezzo necessario per appropriarsi di uno spazio (trans)femminista. Comune a queste esperienze è l'esigenza di avere uno spazio per le donne e soggettività non binarie, luogo di autodeterminazione, ma anche di lotta e , attivo territorialmente, capace da un lato di creare una rete solidale e di mutuo soccorso per donne vittime di violenza, ma dall'altro anche in grado di aprire vertenze per rivendicare politiche più incisive sul contrasto alla violenza di genere. Oltre alla critica nei confronti dello stato e del sistema capitalista, sono spazi il cui orizzonte politico è prima di tutto la lotta al patriarcato, e quindi la costruzione di spazi e comunità (trans)femministe. L'accompagnamento nei percorsi di fuoriuscita da situazioni di violenza, la rete di supporto in casi di aborto, la formazione di operatrici antiviolenza, l'apertura di biblioteche, cineforum e l'organizzazione di rassegne tematiche, come anche l'organizzazione di cortei, assemblee, sit-in, sono tutte attività che, da un lato, costruiscono comunità (formate da reti locali, nazionali e transnazionali), che condividono un sistema di valori e pratiche comuni; dall'altro, le attiviste pretendono un cambiamento radicale dell'intera società e della politica, aprendo vertenze locali, nazionali e non solo. La riappropriazione degli spazi, nella lotta (trans)femminista, è ritenuta fondamentale per la lotta contro il patriarcato, in quanto è un gesto ribelle, di rottura, a maggior ragione se fatto attraverso l'occupazione di uno spazio. In questo senso, le attiviste immaginano città (trans)femministe, e costruiscono proposte e modelli di autogoverno che facciano della lotta al patriarcato una delle basi principali.

Una seconda tendenza è in parte legata a questa nuova ondata di occupazioni e mobilitazioni. Infatti, uno dei temi molto cari alla politica (trans)femminista è la , intesa come cura di sé e della propria comunità. Durante la pandemia, questo tema è certamente diventato centrale, affiancandosi ad altri. La crisi del sistema sanitario (plastica evidenza di anni di tagli di risorse al Sistema Sanitario Nazionale), l'insufficienza e l'inefficacia della medicina territoriale, insieme ad altri fattori hanno aperto nuove riflessioni e criticità. Così, in alcuni spazi già occupati sono nati progetti ambulatoriali che hanno proposto attività e servizi utili anche in periodo di pandemia (come lo screening con tamponi rapidi, o anche la vaccinazione). Sono esempi del genere l'ambulatorio popolare nato all'interno del Centro Sociale Anomalia a Palermo, nel quartiere Borgo Vecchio; l'ambulatorio ASP 0 nato all'interno dello Studentato Occupato 95100 a Catania. Anche in questo caso, l'offerta di questi servizi non ha lo scopo di sostituirsi allo stato, in questo caso il SSN, quanto quella di rispondere a delle esigenze concrete, proponendo un modello di società in cui le categorie marginalizzate non vengano lasciate indietro (le classi subalterne e gli strati sociali popolari, i senza fissa dimora, le persone migranti), in cui la cura diffusa sia un valore e non percepita come uno spreco di fondi o fonte di profitto.

Le occupazioni di spazi fisici inutilizzati, quindi, oltre a essere una forma di protesta, sono certamente fenomeni politici attivi, ma di tipo prefigurativo. Tra le maglie dei discorsi che si sviluppano all'interno delle occupazioni, nelle intenzioni che portano alla scelta di occupare un luogo, nelle attività proposte e nelle vertenze aperte, troviamo non solo forti criticità nei confronti dello status quo, del sistema capitalistico e del modello neoliberista, ma anche il tentativo, e spesso la capacità di attiviste e attivisti di costruire comunità di base che già sperimentano e danno vita a quella forma di società che immaginano e prefigurano.

Bibliografia

Andretta M., Piazza G. e Subirats A. (2015), Urban Dynamics and Social Movements, in della Porta D., Diani M. (a cura di), The Oxford Handbook of Social Movments, Oxford University Press, Oxford 200-2015.

Balestrini N. and Moroni P., L'orda d'oro, Feltrinelli, Milano 1997.

Boggs C., Marxism, Prefigurative Communism and the Problem of Workers' Control, in «Radical America», 6, 1977, pp. 99-122.

Caruso L., Giorgi A., Mattoni A. e Piazza G., Introduzione. Modi e tempi dell'Onda, in Caruso L., Giorgi A., Mattoni A. e Piazza G. (a cura di), Alla ricerca dell'Onda. I nuovi conflitti nell'istruzione superiore, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 17-45.

Curcio A. (a cura di), Introduzione ai femminismi, DeriveApprodi, Roma 2019.

della Porta D., Movimenti collettivi e sistema politico in Italia. 1960-1995, Laterza, Roma-Bari 1996.

della Porta D., The Global Justice Movement, Paradigm, Boulder, CO 2007.

della Porta D., Social Movements in times of Austerity, Cambridge University Press, Cambridge 2015.

Gargiulo E. e Cirulli A., Gli spazi occupati a Napoli: informalità, trasformazioni urbane e discorsi sui “beni cumini”, in «Società, Economia e Spazio a Napoli», pp. 85-96.

Giannini V. e Pirone M., Political participation in self-managed social centres. Direct social action and institutionalization in Bologna city, in «Partecipazione e », 12:3, 2019, pp. 941-969.

Holm A. e Kuhn A., Squatting and urban renewal: The interaction of squatter movements and strategies of urban restructuring in Berlin, in «International Journal of Urban and Regional Research», 35:3, 2011, pp. 644-658.

Koyama E., The Transfeminist Manifesto, in McCann C. R., Kim S. K., Emek E. (a cura di) Feminist Theory Reader, Routledge, 2020, pp. 83-90.

Leach D. K., Prefigurative Politics, in Snow D. A., della Porta D., Klandermans B. e McAdam D. (a cura di), The Wiley-Blackwell Encyclopedia of Social and Political Movements, Blackwell Publishing 2013.

Martínez M. A., The squatters' movement in Europe: A durable struggle for social autonomy in urban politics, in «Antipode», 45:4, 2013, pp. 866–887.

Melucci A., Nomads of the present: Social Movements and Individual needs in Contemporary Society, Hutchinson, Londra 1989.

Melucci A., L'invenzione del presente: movimenti sociali nelle società complesse, Il Mulino, Bologna 1991.

Melucci A., challenging Codes, Cambridge University Press, Cambrdge/New York 1996.

Membretti A., Mudu P., Where Local meets Global. Italian Social Centres and the Alterglobalization Movement”, in Flesher Fominaya C., Cox L. (a cura di) Understanding European movements: New social movements, global justice struggles, anti-austerity protest, Routledge, London 2014, pp. 76-93.

Montagna N., The de-commodification of the urban space and the occupied social centres in Italy, in «City», 10:3, 2006, pp. 917-941.

Mudu P., Resisting and Challenging Neoliberalism: The Development of Italian Social Centers, in «Antipode», 36:5, 2004, pp. 917-941.

Mudu P., I Centri Sociali italiani: verso tre decadi di occupazioni e di spazi autogestiti, in «PArtecipazione e COnflitto», 1, 2012, pp. 69-92.

Mudu P., Introduction: Italians Do It Better? The Occupation of Spaces for Radical Struggles in Italy, in «Antipode», 2017, pp. 1-9.

Mudu P., Rossini L., Occupations of Housing and Social Centers in Rome: A Durable Resistance to Neoliberalism and Institutionalization, in Martinez M. A. (a cura di), The Urban Politics of Squatters' Movements, Palgrave Macmillan, New York 2018, pp. 99-120.

Piazza G., Il movimento delle occupazioni di squat e centri sociali in Europa. Una introduzione, in «Partecipazione e Conflitto», 4:1, 2012, pp. 5-18.

Piazza G., How do activists make decisions within a social centres? A comparative study in an Italian city, in SQEK (a cura di), Squatting in Europe: Radical Spaces, Urban Struggles, Autonomedia, New York 2013, pp. 89-111.

Piazza G., Squatting Social Centers in a Sicilian City: Liberated Spaces and Urban Protest Actors, in «Antipode», 50:2, 2018, pp. 498-522.

Piazza G., Frazzetta F. e Romeo S., Self-Organized and/or from below? The Alternative Forms of Welfare by the Squatting Movements for Housing and Social Centres, in Sciacca F. (a cura di), Social Rights and Social Policy. Theoretical and Empirical Perspectives, Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2016, pp. 73-88.

Pruijt H., The Logic of urban Squatting, in «International Journal of Urban and Regional Research», 37:1, 2013, pp. 19-45.

SqEK, Squatting in Europe: Radical Spaces, Urban Struggles, Autonomedia, New York 2013.

SqEK, Cattaneo C., Martínez M. (a cura di), The Squatters Movement in Europe: Everyday

Communes and Alternatives to Capitalism, Pluto, London 2014.

SqEK, Fighitin for spaces, fightin our lives: Squatting movements today, Edition Assembleage, Munster 2018.

Starecheski A., When Squatters Became Homeowners in New York City, University of Chicago Press, Chicago 2016.

Yates L., Prefigurative Politics and Social Movement Strategy: The Roles of Prefiguration in the Reproduction, Mobilisation and Coordination of Movements, in «Political Studies», 2020, pp. 1-20.

Note

  1. L'Autonomia Operaia si è sviluppata a partire dagli anni 70, ed è stata una rete organizzativa di movimento della sinistra rivoluzionaria composta da collettivi di diversa dimensione e composizione. Per “autonomia” si intendeva l'indipendenza della classe operaia dall'organizzazione capitalistica del lavoro e della società, e il rifiuto della rappresentanza, dunque l'indipendenza da partiti e sindacati (Mudu 2004; Piazza 2018).

  2. La Pantera è stato un movimento studentesco emerso alla fine del 1989, nato dall'opposizione alla riforma Ruberti sull'autonomia universitaria. La mobilitazione inizia nel dicembre del 1989, quando la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo viene occupata da studenti e studentesse contro la riforma; a questa occupazione, nel giro di poche settimane, ne seguiranno altre, a Palermo come nel resto d'Italia. La riforma introduceva la possibilità di finanziamenti privati alle ricerche accademiche, e l'ingresso di attori privati nei consigli di amministrazione degli Atenei. Gli studenti e le studentesse, quindi, si opponevano a questa, in quanto considerata una riforma che avrebbe dato il via a un progressivo processo di privatizzazione dell'università, inoltre creando disparità tra quelle università in grado di attrarre più fondi privati e quelle meno in grado, generando la svalutazione di molti titoli di studio; inoltre, si richiedeva una maggiore rappresentanza studentesca negli organi decisionali, fino al quel momento non prevista (della Porta 1996; Caruso et al. 2010).

  3. Con questo non intendiamo dire che, fino a quel momento, la rete fosse stata unica e coesa. Sebbene l'Autonomia Operaia avesse esercitato una forte influenza, questa non ha riguardato tutti i centri sociali in Italia. Infatti, oltre agli spazi che facevano riferimento all'esperienza dell'Autonomia, esistevano (ed esistono) anche spazi anarchici.

  4. Il 19 settembre 1998 a seguito di un'assemblea tenutasi al Leoncavallo di Milano, viene redatta la “Carta di Milano”, documento conclusivo dell'assemblea che si sviluppa su diversi punti: diritto alla circolazione delle persone e abolizione dei centri di detenzione per persone migranti senza documenti; amnistia per i/le detenuti/e politici e per i reati legati alla pratica dell'occupazione; liberalizzazione delle droghe leggere; scarcerazione dei/delle malati/e gravi e dei/delle malati/e di AIDS. Aderenti al documento il CS Leoncavallo, il CSO Pedro di Padova, il CS Rivolta di Mestre e il Corto Circuito di Roma.

  5. Occupato nel giugno del 2011, l'occupazione del Teatro Valle di Roma rientra nella categoria che Pruijt chiama “occupazioni conservative” (2013), cioè un tipo di occupazione il cui scopo è salvaguardare (conservare, appunto) un edificio a rischio demolizione o conversione di uso, perché se ne riconosce l'alto valore culturale, artistico e sociale. L'esperienza del Teatro Valle Occupato (poi diventato una fondazione), come anche di molte altre occupazioni simili, si è intrecciata con la mobilitazione attorno ai beni comuni o commons (quindi anche con le campagne referendarie per l'acqua pubblica e contro il nucleare del 2011).

  6. È necessario specificare che, in questa riflessione, non rientrano molti spazi occupati facenti parte dell'area anarchica che, ovviamente, continuano ad essere contrari all'assegnazione legale.