Paola Boscaini | Città viva | Vol III | Futuri urbani
«Abitare è un verbo bellissimo, sinonimo di vivere. Significa continuare ad essere in un luogo e averne cura. Significa avere abitudini (habitus), consuetudini di riconoscimento reciproco; significa pure avere un “habitat”, ovvero un luogo che ha significato per come lo si vive con gli altri. Chi non abita, semplicemente risiede. L’abitare richiede una scelta radicale: quella del restare in un luogo, per recuperarlo, amarlo con un proprio fare, arricchirlo non attraverso il denaro ma l’azione.»
Michele Carducci, 2019
Sull’abitare
Martin Heidegger scrive che l’abitare è il modo in cui gli uomini stanno sulla terra; loro indispensabile condizione di partenza, quella dell’interiorità. L’abitare implica un processo di interiorizzazione del mondo, poiché l’identificazione con il luogo è alla base del processo umano di ambientazione. Esso richiede l’orientamento nello spazio come forma di comprensione, per conoscere un contesto relativamente a se stessi e agli altri. Chi abita deposita segni, marca lo spazio, lo modella. Tali segni compongono una sorta di narrazione, ci parlano di un luogo, delle sue trasformazioni ordinarie ed eccezionali, dandoci le informazioni necessarie per potervi interagire.
La forma di un insediamento si trasforma, attraverso quest’ottica, in una mappa mentale, una costruzione culturale a cui solo gli abitanti possono accedere fino in fondo per tenerla in vita. A tal proposito infatti, Franco La Cecla, nel suo libro Mente locale, ci mostra come dai luoghi nascono i pensieri, poiché l’attività del vivere e del conoscere uno spazio si può definire come un tipo speciale di attività cognitiva. “Fare mente locale”, secondo La Cecla, consiste, quindi, nel depositare la propria mente su di un luogo; essa può rintracciare i pensieri «planando sul territorio di qualcosa che non è un passato, ma uno spazio passato»[1]. Lo spazio, come creazione, non può mai essere neutro, perché su di esso vengono rappresentati tutti i sistemi di classificazione simbolica alla base di una determinata società. «Ogni paesaggio corrisponde, in questo senso, a un modo sociale e culturale di installarsi sulla superficie della Terra e di abitarla, cioè di trasformare l’estensione, totalmente o in parte, in una vasta dimora»[2].
Lo spazio abitato, come mappa mentale in ogni individuo, si offre come luogo reale e immaginario dove depositare le proprie memorie. Lo spazio pubblico, quindi, non viene vissuto solo a livello sincronico, nel rapporto con l’altro, ma anche a livello diacronico, attraverso la lettura della memoria collettiva stratificata nei luoghi. Per questo motivo la memoria collettiva diviene contributo fondamentale per la costruzione dell’identità specifica del luogo stesso. L’esperienza soggettiva della memoria dei luoghi viene ricostruita da ogni individuo riunendo i frammenti disseminati in essi, attraverso l’immaginazione di chi li attraversa.
Il territorio, infatti, viene definito da Alberto Magnaghi come il risultato dei processi di co-evoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente. Non quindi un dato fisico, ma piuttosto l’esito di un processo di territorializzazione, come scrive Franco La Cecla, di strutturazione dello spazio, materiale e simbolica, da parte delle società che si sono insediate al suo interno. Secondo Jean-Marc Besse «[n]on si possono separare le società dagli spazi che esse si creano per viverci, e questa relazione si esprime nei paesaggi, intesi qui come ambienti di vita, di esperienze e di pratiche»[3]. Il paesaggio però, secondo Besse, «ci porta più lontano del territorio»[4], nonostante contenga in esso senza dubbio una dimensione territoriale.
[I] paesaggi, come pure gli spazi che gli umani si sforzano di organizzare, sono luoghi di incontri, mai completamente stabili, tra specie viventi, e gli umani non sono che un elemento, certamente a volte predominante, di questi incontri e degli insiemi che ne risultano.[5]
Essi ci mostrano come il mondo terrestre non possa essere interamente territorializzato. Nonostante ciò noi ci immergiamo nel paesaggio, agiamo e pensiamo venendo costantemente influenzati da esso, poiché è una dimensione costitutiva della nostra esistenza.
Besse, nel suo libro Paesaggio ambiente, distingue due principali forme di azione che si possono intrattenere con il paesaggio: una che comporta l’agire su, che ha per fine la produzione, al quale contrappone l’agire con, o il fare con, azione che riconosce la materia non come un qualcosa di inerte, ma come un qualcosa con la quale bisogna costantemente attuare un processo di negoziazione. Progettare con il paesaggio implica, quindi, un atto di attenzione per ciò che già c’è, imparare ad ascoltarlo e a osservarlo attraverso le sue forme e i suoi ritmi specifici. Fare, dunque, non tanto come l’imporre una forma a una sostanza inerte, ma come un atto che mette in mostra le potenzialità intrinseche della materia.
No sense of place
Oggi «[l]a città è ovunque e in ogni cosa»[6] scrivono Ash Amin e Nigel Thrift. Basti pensare come nel 1800 solo il 3% della popolazione mondiale vivesse nelle città. Oggi si arriva al 55% della popolazione e, secondo la stima contenuta nel World Urbanization Prospects 2018, nel 2050 sarà quasi il 70% della popolazione mondiale a vivere in aree urbane.
Il fenomeno urbano, nella contemporaneità, si è esteso fino a diventare planetario. La città infinita, come la definiscono Aldo Bonomi e Alberto Abruzzese, si espande a bassa densità e ad alto consumo di territorio, stemperando il senso di appartenenza a una Comunità urbana in una sterminata costellazione di elementi architettonici, la cui disposizione sul territorio rende impossibile una lettura dello spazio, sia dal punto di vista strutturale che dal punto di vista sociale. Le pratiche istituzionali di zonizzazione spaziale della città moderna hanno contribuito a fare della frammentazione fisica e sociale una delle caratteristiche strutturali dello spazio contemporaneo.
Lo spazio urbano è stato compartimento principalmente in due tipologie: quello delle periferie, dove sono confinante le classi popolari, e quello degli spazi del centro città, aree da proteggere destinate alle classi agiate, borghesi e piccolo borghesi, nonché ai turisti. I luoghi sono stati “normalizzati”, riconfigurando lo spazio ai fini della difesa sociale contro un nuovo nemico interno, il povero. Tutti gli interventi di riqualificazione degli spazi pubblici o semi-pubblici vengono oggi pensati con un unico scopo: la possibilità di controllarli. Lo spazio pubblico tradizionale, inteso come elemento capace di esprimere e rappresentare la comunità e la collettività, viene estremamente rimpicciolito, quasi al punto di essere eliminato. Il ruolo del cittadino viene ridotto, perlopiù, al ruolo di consumatore, ruolo che esclude tutti coloro che non si possono permettere questo status e la cui presenza risulta incongrua e sgradita.
Oggi, quindi, uno dei principali problemi che ci troviamo di fronte è quello di restituire un’identità a parti di città che l’hanno totalmente persa o che non l’hanno mai avuta, neanche nelle intenzioni dei loro progettisti. La caduta di senso di ogni luogo, il no sense of place, e la perdita di contatto tra l’abitare e il costruito hanno fatto venire meno il rapporto reciproco tra identità e luoghi, che sono diventati alienati, come gli abitanti stessi. Il nostro spazio oggi è sempre meno nostro. Non è più così facile muovere, mutare e manipolare: ciò che sta attorno a noi è diventato rigido, predeterminato, incasellato in griglie e canali che tendono a rispecchiare sempre di più la nostra vita.
Si potrebbe dire che la nascita e la presenza della città moderna richiedano come conseguenza e postulino come principio un irrigidimento del “senso comune” dello spazio: da un’idea di spazio come ambito manipolabile del proprio abitare a un’idea più astratta e generale dello spazio, e quindi anche più impersonale e statica. La città moderna è frutto di una messa a punto di complesse operazioni di “regolarizzazione” e “igienizzazione”, non solo del tessuto urbano, ma anche e soprattutto dei comportamenti urbani […]. Viene spazzato via dal paesaggio urbano uno spazio irregolare e invadente, quello di abitare fuori e dentro la porta e di modellare per casupole, banconi, affacci, tende, mercatini, impasses e cortili lo spazio della città, delle piazze e dei monumenti.[7]
Le città, così facendo, divengono invisibili agli abitanti stessi.
Praticare l’attenzione
Se dietro ogni città, dietro ogni paese, dietro ogni agglomerato di case, si celano intrecci sociali nascosti oltre le soglie dell’abitare, emerge come agire con il paesaggio – dal quale concetto la città non è esclusa – significhi riflettere prima di tutto sulla nozione di progetto. Il fare non vuole per forza dire rifare agendo dall’esterno su una materia considerata inerte. Il fare, secondo Jean-Marc Besse, implica un’interazione e una combinazione delle proprie forze con quelle degli altri e con ciò che li circonda. Il costruire, secondo Colin Ward, è da vedersi come impresa comunitaria, elemento fondamentale per un buon abitare, dove la distanza tra il progettista e l’esecutore si riduca al minimo e in cui ogni persona possa essere orgogliosa del proprio lavoro. Il ruolo dei cittadini va allora cambiato da quello di destinatari a quello di partecipanti.
La partecipazione si presenta come elemento estremamente importante in qualsiasi progetto, poiché capace di riumanizzare una società resa stordita e frammentata dalla repressione della produzione capitalista. Lo storico Grant Kester osserva come la funzione dell’arte sia quella di opporsi a un mondo nel quale «siamo ridotti a una pseudo-comunità atomizzata di consumatori e le nostre sensibilità sono rese ottuse dallo spettacolo della ripetizione»[8]. Bisogna però fare attenzione a come la partecipazione viene proposta e utilizzata, poiché portatrice di una duplice valenza: quella che propone forme di interazione sociale finalizzate al mantenimento del sistema e quella che, invece, punta alla trasformazione del sistema stesso. La partecipazione, infatti, se non è portatrice di una maggiore consapevolezza critica nei cittadini, non può contribuire a cambiare la coscienza delle condizioni della vita quotidiana, ma aiuta semplicemente ad accettarle.
Non si può [quindi] parlare di partecipazione pubblica senza parlare di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà. E la questione determinante è trovare metodi di decisione e dibattito capaci di coinvolgere chi solitamente non ha voce in capitolo.[9]
Nei progetti artistici che lavorano su questo, l’identificazione empatica dev’essere molto valorizzata, poiché si presenta come l’unico elemento che può facilitare «uno scambio reciproco che ci permetta di pensare al di fuori della nostra personale esperienza vissuta e di stabilire una relazione di maggiore coinvolgimento emotivo con gli altri»[10].
Diventa essenziale, in questo contesto, trovare metodi di decisione e di dibattito che diano spazio a tutti, che siano capaci di aumentare la consapevolezza delle persone, nonché la loro conoscenza dei processi di trasformazione territoriale. La realtà, per essere cambiata, necessita di essere conosciuta. Vanno costruiti, allora, nuovi rapporti sociali, nuove modalità di decisione, nuove tipologie di progetti e nuovi modi di vivere la realtà. E bisogna farlo subito, in modo corretto, inclusivo, collettivo e creativo. Un primo passo verso questa direzione è l’educazione all’attenzione, poiché «non è sufficiente fare e saper costruire, bisogna egualmente, e forse in primo luogo, saper abitare. Il paesaggio è contemporaneamente una condizione e un’espressione di questo saper abitare»[11]. Usando le parole di Jean-Marc Besse, è importante esercitare la capacità di osservare, di descrivere, di immedesimarsi, al fine di insinuarsi nel mondo.
L’attenzione al paesaggio assume la forma di una preoccupazione per coloro che lo popolano e lo attraversano, umani e non umani, e della volontà di intrecciare le loro intenzioni e le loro storie. […] Una delle forme di questo intreccio etico è l’educazione. A proposito di educazione Tim Ingold […] scrive «Se l’educazione consiste nel prendersi cura del mondo nel quale viviamo e dei suoi molteplici abitanti, umani e non umani, allora non si tratta tanto di includerli, quanto di restituirgli una presenza, così da poterci aprire e rispondere a quello che hanno da dire».[12]
Il laboratorio diventa un luogo cruciale dove apprendere attraverso la trasmissione dei saperi e dare il via a uno scambio di informazioni, competenze e opinioni. Luogo dove produrre nuove azioni politiche e nuove soggettività, dove decostruire il mondo esistente per ricostruirlo in modo critico andando verso un processo di coscientizzazione collettiva, come scrive Rachele Borghi.
Il ruolo dell’arte tra la città e la vita
Che ruolo può avere l’arte all’interno del contesto appena descritto? In che modo può entrare nella vita e, soprattutto, che contributo può darle? Tenendo conto di come la realtà sociale si rigeneri attraverso l’immaginario, può l’arte diventare espressione sociale, portatrice di nuove possibilità di vivere uno spazio?
I’m convinced that art, given its long histories of experimentation, imaginative invention, and radical thinking, can play a central transformative role here. In its most ambitious and far ranging sense, art holds the promise of initiating exactly these kinds of creative perceptional and philosophical shifts, offering new ways of comprehending ourselves and our relation to the world differently than the destructive traditions of colonizing nature.[13]
Questa l’idea di T. J. Demos sulle potenzialità dell’arte nell’attuare una decolonizzazione del concetto di natura. La ricerca artistica, infatti, collocata in quel sottile strato tra utopia e realtà, si presenta come un mezzo libero di muoversi nello spazio lungo percorsi alternativi, sovvertendo le regole e i comportamenti comuni. Percorsi in grado di indurre reazioni emotive che impongano un ripensamento dei canoni ufficiali. Attraverso azioni di micro politica, la creazione di laboratori per la costruzione di una coscienza critica e l’analisi del territorio, carico di tutte le relazioni che lo compongono, l’azione artistica può mirare alla reinvenzione e produzione di nuovi spazi pubblici e privati che si pongano in contrasto con quelli esistenti.
La democrazia di quartiere è un continuo dislocarsi dei confini, non la loro negazione. Si vive fianco a fianco, con il proprio quartiere, la propria città, la propria regione, con il proprio paese, con l’Europa e con il mondo intero. […] È necessario cercare senza indugio un punto d’incontro dove poter lavorare attraverso un unico flusso di energia: l’identità (intima integrità) e l’alterità (l’altro, l’infinito altro di cui sono responsabile). La politica e l’estetica condividono un’etica per questa pianificazione. Questa è la loro esigenza, il loro impulso, e la loro vera natura.[14]
Nell’azione artistica sociale e partecipativa, il valore dell’esperienza quotidiana va recuperato e l’autodeterminazione delle comunità evidenziata come tratto fondamentale del progetto collettivo. Diventa essenziale, in questo contesto, stimolare l’interesse e la capacità degli abitanti a esprimere un’opinione. Far leva sull’immaginario come strumento di condivisione e coesione. Il desiderio individuale va recuperato e contrapposto a quello indotto dalla “società spettacolare”, poiché la realtà sociale ha la possibilità di rigenerarsi proprio attraverso la riorganizzazione dell’immaginario, personale e collettivo. In questo contesto diviene necessario un recupero dei ragionamenti sulla territorialità, come pratica e politica spaziale, al fine di comprendere i processi di identificazione che ogni comunità mette in atto per riconoscersi nel proprio territorio. Bisogna riappropriarsi della città e analizzarne il ritmo visivo al fine di comprendere i criteri attraverso i quali le identità si definiscono – criteri che sono indissolubilmente legati ai contesti culturali nei quali le identità stesse si trovano collocate.
Le pratiche artistiche che qui di seguito verranno presentate prendono origine dalle suggestioni e dagli stimoli di cui il territorio è portavoce attraverso un linguaggio non parlato: identità e memoria.
Camminare tra le rovine
Il cammino, come metodo di investigazione del reale, modo di condursi nello spazio ed esperienza corporea del paesaggio, è un “oggetto” esemplare per l’analisi dell’attenzionalità umana. Da una parte, la passeggiata è una metodologia di indagine […], consente di cogliere, di “vedere”, di far apparire realtà rimaste invisibili e insensibili. […] È percorrendo le strade, scorgendo muri e facciate, con occhi e orecchie ben aperti, che posso accedere a organizzazioni, a divisioni e a usi dello spazio, a discorsi, ad abitudini territoriali, alle quali non avrei avuto accesso in altro modo. Le strade dove sto camminando, le panchine su cui mi riposo, le terrazze dove mi fermo semplicemente a guardare mi offrono un sapere geografico impareggiabile.[15]
L’essere umano, con il suo passo, solca la città, per conoscerla e darle un nuovo significato, nuove forme di conoscenza. Lo spazio tradizionale viene così decostruito pezzo per pezzo, alla ricerca di un nuovo senso, un nuovo moto, una nuova stasi, che riporti alla vita i freddi blocchi di pietra che lo delimitano. È un esercizio del corpo, ma anche, e soprattutto, un esercizio dello sguardo e della mente. Camminare diventa, così, un atto politico. Le pratiche artistiche, attraverso il camminare, hanno rivendicato, e rivendicano tutt’ora, la necessità di recuperare un rapporto diretto e sensibile con i luoghi.
Stalker, collettivo di artisti e architetti fondato a Roma nel 1995, ha condotto una lettura della città attuale, osservandola dal punto di vista dell’erranza, delle “transurbanze” condotte dagli stessi artisti in alcune città europee. L’atto di camminare diviene strumento critico per osservare il paesaggio. Stalker ha individuato e denominato come “Territori Attuali” quelle zone di scarto metabolizzate dalla natura e divenute altro. Questi territori difficilmente progettabili, poiché privi di una collocazione nel presente, possono e devono essere rappresentati e archiviati come unica forma possibile di mappatura. Per indagare tali spazi, senza mediazioni, Stalker li attraversa a piedi. Attraversare come atto creativo e disposizione all’ascolto, come atto di nascita di un sistema di relazioni tra le contraddizioni proprie di quei luoghi. Il percorso diventa, in questo modo, una mappa cognitiva; l’agglomerato urbano stesso si presenta come una grande mappa cognitiva, costantemente aggiornata con il suo attraversamento.
Attraversare e far attraversare, percepire con i sensi i luoghi attraversarti. Scoprire, nei coni d’ombra di un territorio solo apparentemente evidente, la sedimentazione di frammenti di memorie in abbandono e l’insorgere di possibili futuri in lotta per diventare realtà, frammenti che affiorano casualmente legati dall’unicità di una esperienza: il percorso.
I percorsi che noi realizziamo sono pratiche insieme esperienziali e conoscitive, svolte con attitudine ludica e curiosità, azioni dinamiche e unitarie attraverso la frantumazione spazio-temporale del territorio contemporaneo. Architetture trasversali attraverso cui scoprire, varcando limiti e costeggiando margini, processi e relazioni altrimenti invisibili.[16]
Memoria dei luoghi e comunità
Osservatorio Nomade è una rete fondata dal gruppo Stalker nel 2001 che riunisce professionalità provenienti da diversi ambiti disciplinari, come artisti, urbanisti, architetti, grafici e videomakers. Osservatorio Nomade propone pratiche esplorative creative, relazionali, ludiche e conviviali con fini di ricerca e azione sul territorio. Esse si fondano sulla co-azione fra l’osservatore e il territorio, entrambi animati da immaginari e memorie individuali e collettive. Tali pratiche fungono come catalizzatrici di processi evolutivi autorganizzati, attraverso la tessitura di una rete di relazioni sociali e ambientali lì dove l’abbandono ha preso il sopravvento.
Tra il 2004 e il 2005 il collettivo Osservatorio Nomade/Stalker realizza il progetto Immaginare Corviale, curato dalla Fondazione Adriano Olivetti. Progetto che ha coinvolto più di cento figure, tra artisti, architetti, videomakers e musicisti, con l’intenzione di trasformarne l’immaginario legato a stereotipi e falsi miti che ruotano attorno a questo famoso edificio di Roma. Corviale, o Nuovo Corviale, è un complesso residenziale situato nella periferia sud-ovest di Roma. Di grandi dimensioni, lungo 958 metri e abitato da circa 6000 persone, è caratterizzato dalle difficili condizioni di vita dei suoi abitanti. Fin dagli anni Settanta ha catalizzato una grande attenzione, diventando quartiere-simbolo del degrado delle periferie. «Per alcuni un monumento dell’architettura modernista, per altri un mostro, Corviale è un luogo simbolico della memoria recente dal quale ripartire per pensare il presente e il futuro della città contemporanea»[17].
Durante il periodo di realizzazione di Immaginare Corviale si è cercato di comprendere, attraverso il dialogo con gli abitanti, come gli spazi edilizi e le zone circostanti siano vissute, modellate e immaginate da coloro che le abitano. I residenti hanno richiesto la creazione di una nuova immagine per il complesso residenziale. L’intenzione del collettivo è stata proprio quella di restituire loro la consapevolezza dell’utopia che era alla base del progetto originale, focalizzando l’attenzione sul contesto politico e culturale che ne ha definito la pianificazione. Proprio con questa intenzione progettisti e abitanti sono stati messi in relazione, in un continuo dialogo tra passato e presente, memoria storica e vissuto attuale. Corviale, luogo emblematico per architetti e paesaggisti urbani, necessita una nuova riflessione
sul significato e sull’impatto dell’ideologia della pianificazione urbana e dell’edilizia popolare che negli anni Sessanta e Settanta improntava le attività degli intellettuali, dei politici e dei tecnocrati. Un’ideologia che è stata successivamente abbandonata senza mai aver raggiunto le persone per le quali era stata pensata.[18]
In questo contesto sono state indagate le possibilità sonore dell’edificio, grazie al Laboratorio Sonoro concepito da Mario Ciccioli; i collegamenti e i percorsi tra Corviale e l’area circostante, grazie al laboratorio Corviale Far West; e le narrazioni e i ricordi dei progettisti accostate alle storie degli abitanti in un continuo dialogo tra passato e presente, grazie al laboratorio Storie Comuni, tenuto da Giorgio D’Ambrosio, Matteo Fraterno, Cesare Pietroiusti e Francesca Recchia. È stato, infine, realizzato da Osservatorio Nomade uno strumento di comunicazione, il Corviale Network, prototipo di televisione di quartiere, cassa di risonanza per necessità e fantasie.
Un progetto che richiama, per metodi e intenti, quello attuato al Corviale, è il Bolzanism Museum. Inaugurato nel 2020, come evoluzione di un progetto di ricerca sul campo avviato da Coperativa 19 e Campomarzio nel 2007, si presenta come il primo esperimento in Italia di museo di social housing e architetture popolari. Attraverso lo studio e il racconto della storia di alcuni dei più significativi complessi residenziali popolari del Novecento, situati nei quartieri periferici di Bolzano ovest, i membri del progetto di ricerca hanno avviato un processo di confronto che ha coinvolto i residenti stessi in una ridefinizione della propria identità collettiva.
L’obiettivo è stato quello di stimolare una presa di coscienza da parte degli abitanti della storia del proprio caseggiato e della relazione tra questa e la storia del quartiere e della città, e di ottenere dagli inquilini la narrazione individuale della propria “micro-storia”. Raccontando agli abitanti la storia delle loro case si è gettato il seme per recuperare e supportare la dimensione identitaria sottesa al vivere nei caseggiati sociali sviluppando un collegamento tra storia individuale e collettiva, per innescare un processo di condivisione e rendere gli stessi cittadini portatori attivi e partecipi di una visione sullo sviluppo della città.[19]
Un altro interessante esempio di progetto realizzato con il quartiere e per il quartiere è stato Je & Nous, progetto pensato per Beaudottes, un quartiere della città di Severan, e realizzato dal collettivo Campement Urbain nel 2002. Il collettivo Campement Urbain è stato fondato in Francia da Sylvie Blocher e Francois Daune nel 1997 e aperto alla collaborazione di diversi professionisti. In ogni suo intervento propone un approccio interdisciplinare nel quale la pratica professionale si fonde con la partecipazione degli abitanti. Nel 2002, in risposta al concorso internazionale “Art/Community/Collaboration”, promosso dalla fondazione Evens di Anversa, realizza appunto il progetto Je & Nous in un quartiere principalmente composto da case popolari. Negli anni precedenti al 2002 la popolazione di Beaudottes si è frammentata e impoverita. Il quartiere che ospita una popolazione emarginata, costituita in maggioranza da gruppi di comunità straniere, ha conosciuto pesanti problemi sociali. Molti dei suoi abitanti non hanno la cittadinanza francese e, molto di rado, uno status politico. Le diverse comunità, costrette qui a vivere a stretto contatto, non riescono a integrarsi tra di loro, maturando forti conflitti. Gli spazi esistenti sono frammentati, mentre quelli pubblici scomparsi. Il progetto Je & Nous ha voluto indagare le relazioni e i collegamenti tra i singoli individui e le comunità, al fine di esaminare e ripensare il concetto di spazio pubblico. Le definizioni di spazio pubblico, da cui prende il via il progetto, lo inquadrano come luogo simbolico di discussione, di confronto di idee e valori, come agorà, in cui le persone possano incontrarsi, nonché come luogo possibile dell’alterità.
Scopo di Campement Urbain è di creare, in un’area di grande tensione quale è la città di Severan, in Francia, un luogo a disposizione di tutti e sotto la protezione di tutti. Un luogo che non ha uso, fragile e non produttivo. Un luogo aperto a tutti, dove si entra da soli. Un luogo dove provare un’attrazione per la solitudine. Un luogo in cui allontanarsi dalla comunità, protetto dalla comunità stessa. Un luogo di assenza dove restare soli con se stessi. […] Un luogo di spiritualità senza religione. Un nuovo spazio pubblico.[20]
Tale proposta può diventare realtà solo se gli abitanti e i loro rappresentati politici e sociali se ne assumono la responsabilità quotidiana. Questa operazione necessita di un lavoro collettivo anche durante la sua progettazione; momento che andrà a costruire, di per sé, un primo spazio pubblico. Quello che viene messo in questione, qui, è il senso stesso di un atto artistico, attraverso la condivisione delle responsabilità. Ogni decisione viene presa all’unanimità, in un processo di costante “ginnastica dell’alterità”.
Ripensare il futuro attraverso la pratica dell’ospitalità
Dalle pratiche artistiche sopracitate è emerso come l’osservazione e lo studio del territorio, nonché delle dinamiche relazionali racchiuse in esso, si presentino come condizione essenziale per la comprensione di un luogo, nonché per la sua riappropriazione. Dalla pratica del camminare si è passati a quella del ricostruire storie e luoghi spesso ignorati, ma determinanti per la definizione dell’identità dei luoghi stessi. Storie che, se raccontate e comprese, possono rivitalizzare una comunità spesso svalutata e marginalizzata.
Parlare di un territorio e dei suoi abitanti implica, però, anche una considerazione sul rapporto che essi intrattengono con chi sta un po’ più in là, fuori dai margini tracciati dalla comunità insediata: lo straniero o l’alterità. I confini fisici, atto archetipo attraverso il quale gli uomini si sono impossessati del suolo, si presentano come elemento strutturante del loro rapporto con lo spazio. I confini, però, per quanto lo si cerchi di negare, sono uno strato poroso. Gli uomini dalla notte dei tempi li hanno sempre attraversati e in tutte le culture arcaiche l’ospitalità si è sempre presentata come un atto sacro.
È proprio sul tema dell’ospitalità che è nata l’idea di CIRCO, progetto di ricerca e didattica iniziato nel 2017 all’interno del Dipartimento di Architettura di Roma Tre e coinvolgente diverse realtà cittadine. Ciò che questo progetto propone è di trasformare il patrimonio dismesso o sottoutilizzato in una «rete metropolitana di condomini interculturali fondati sull’ospitalità, i circhi: da una parte la proposta di una politica urbana, culturale e sociale, e dall’altra quella di un immaginario architettonico, il sapere di uno spazio possibile»[21]. Questi spazi vogliono aprirsi verso una costruzione dell’abitare collettiva, composta da luoghi di scambio e socialità, che puntino ad una direzione politica dell’accoglienza che generi forme di reciprocità e convivenza. Accoglienza non da intendere come azione unidirezionale volta ad «accudire i corpi e non le persone»[22], ma in un senso più reciproco di ospitalità, basata su uno scambio che veda l’ospite come portatore di risorse e cultura. Questo progetto nasce dalla constatazione di come, nella città di Roma, ospitare ed essere ospitati sia un’azione impedita. Roma è l’unica capitale europea che non ha ancora approntato un piano di accoglienza per i migranti e dove, al contempo, l’emergenza abitativa continua ad essere un problema in costante crescita, come scrive Francesco Careri nel volume COMP(H)OST.
Il CIRCO intende quindi scardinare il sistema dell’accoglienza, dove se si appartiene ad una certa categoria si viene spazializzati in diversi contenitori e la vita diventa un numero in attesa, un corpo da nutrire impossibilitato a dare. L’ospitalità può avvenire solo tra persone capaci di scambiarsi doni, in uno spazio di incontro reciproco, come nel mondo antico. E senza chiedere documenti. Perché nessuno è illegale.[23]
Il diritto a essere ospitati non può essere negato, ma neanche quello di ospitare. Sandi Hilal, architetta fondatrice insieme a Alessandro Petti del collettivo DAAR (Decolonizing Architecture Art Research), si chiede a questo proposito: «chi ha il diritto di ospitare? A chi viene chiesto di comportarsi come l’ospite perfetto? Come possiamo analizzare il potere di ospitare come mezzo per rendersi visibile e pretendere di esercitare la propria agentività?»[24]. Ciò che Hilal critica è come, nella logica occidentale, i ruoli siano sempre netti e definiti e l’europeo si imponga come il “signore ospitante”.
La ricerca artistica di Sandi Hilal e Alessandro Petti in DAAR (Decolonizing Architecture Art Research) si situa tra la politica, l’architettura, l’arte e la pedagogia. Nel loro lavoro hanno creato ambienti di apprendimento critici, interventi che mirano a sfidare le narrazioni dominanti e hanno prodotto nuovi immaginari politici. Nel 2007, insieme a Eyal Weizman hanno fondato DAAR (Decolonizing Architecture Art Residency) a Beit Sahour, in Palestina, aprendo la loro casa con l’obiettivo di fondare uno studio di architettura e una residenza d’artista in grado di mettere insieme architetti, artisti, attivisti, urbanisti, film-makers e curatori per intraprendere una ricerca sul colonialismo, nonché per trovare metodi che permettano la decolonizzazione delle nostre menti, ispirando chi ci sta vicino a fare lo stesso.
Al-Madafeh/ The Living Room è un progetto iniziato da Sandi Hilal a Boden, in Svezia, ispirandosi alla storia di due coniugi rifugiati siriani: Yasmeen e Ibrahim. Yasmeen e Ibrahim a Boden, rifiutato il ruolo che ci si sarebbe aspettati da loro, ovvero quello esterno di ospiti, continuavano ciò che per loro era una parte essenziale della vita in casa: aprire il loro Al-Madafeh per ospitare. Al-Madafeh è, nella cultura araba, il soggiorno dedicato all’accoglienza degli ospiti; un luogo a metà tra lo spazio domestico e quello pubblico. Questi luoghi di aggregazione collettiva sono sempre stati di fondamentale importanza per l’organizzazione della società araba. «The Living Room opera come uno spazio locale di rappresentazione pubblica e funziona soltanto se c’è una persona nella comunità che si dichiara […] soggetto ospitante, e che apre una parte della propria dimora privata per trasformarla in uno spazio pubblico»[25]. Lo scopo di questo progetto non è tanto quello di concedere un diritto a soggetti marginalizzati, ma quello di dare a queste persone la possibilità di creare un loro spazio in cui esercitare il diritto a essere soggetti ospitanti in terra straniera, adottando una forma di abitare che vada contro al tentativo di separare lo spazio pubblico da quello privato. «Rovesciare il ruolo delle istituzioni nel processo di ospitalità è una dinamica necessaria all’emancipazione dei suoi stessi ospiti, e una questione strettamente correlata ai trasferimenti di potere. Chi ha il potere di ospitare chi e chi può soltanto essere ospitato?»[26].
Le stanze raccontano chi le abita, raccogliendone l’identità. Una stanza si configura come un limite, un bordo, un confine tra interno e esterno, il quale perimetro va a delimitare lo spazio privato di un individuo. Una stanza, però, come abbiamo visto, può essere anche uno spazio di mezzo, Al-Madafeh, una zona di contatto tra ciò che è privato, intimo, personale e ciò che invece sta fuori, l’altro, lo straniero. Un punto in cui siamo costretti a ridefinire i nostri confini personali e in parte scioglierli per ricomporli di nuovo in una forma più ampia.
Ed è ancora dal concetto di stanza che il collettivo artistico Oda Projesi, nato nel 1997 e composto da Özge Açikkol, Güneş Savaş e Seçil Yersel, inizia la sua attività a Galata, un antico quartiere di Istanbul situato nel centro della città. Qui il collettivo ha affittato un appartamento a piano terra, in cui organizza esposizioni artistiche, nonché diverse altre attività, collaborando con i residenti della zona. “Oda”, in turco, significa stanza, quindi una traduzione letterale del nome del collettivo potrebbe essere, per l’appunto, “stanza del progetti”. Questo gruppo basa le fondamenta del proprio lavoro sul potenziale creativo insito nella vita quotidiana. Il suo interesse principale è quello di promuovere incontri sociali ordinari «al fine di costruire […] un “monumento composto da gesti di vita quotidiana e strati di memorie della comunità”»[27]. Il pubblico non viene quindi coinvolto solo in qualità di osservatore, ma in qualità di partecipante attivo. I loro progetti vengono documentati attraverso la fotografia, la registrazione video e la pubblicazione di riviste e libri. Oda Projesi è, dunque, un collettivo di artisti che ha scelto di diventare parte della comunità in cui si è insediato e che sta creando una relazione a lungo termine con le persone di Galata. Questo aspetto è molto importante, poiché incentiva la possibilità di avere scambi con le persone a un livello paritario. Oda Projesi vuole rendere visibile la flessibilità dello spazio attraverso la discussione e la riflessione collettiva, ed è proprio in relazione alla flessibilità dello spazio che la precarietà può diventare una condizione positiva. Infatti, «[l]e attività che avvengono in uno spazio specifico sono ciò che lo fa esistere e che gli dà forma, ma queste attività non avrebbero le stesse caratteristiche se avvenissero in un altro spazio»[28].
Comunità ecologiche
La pratica artistica, come abbiamo visto, può inserirsi nel contesto urbano al fine di rivitalizzare un senso di comunità e di appartenenza propria sia ai luoghi che alle persone. Può entrare nelle case e aprirne le porte, riattivando quell’atto di ospitalità necessario per mantenere un contatto diretto con il mondo circostante. Può invadere gli angoli, gli interstizi, gli ambienti di tutti quegli spazi che sono stati abbandonati per renderli altro: luoghi di inclusione e di determinazione delle coscienze individuali. Queste sono tutte pratiche dell’attenzione, del prendersi cura.
C’è un’entropia nel territorio che finisce per disfare la sua organizzazione se non ci se ne prende cura, se non lo si mantiene. Allora il territorio si perde. Si entra in uno spazio indeciso. […] Tuttavia la perdita del territorio non è necessariamente sinonimo di perdita del paesaggio. Gilles Clément chiama Terzo paesaggio “l’insieme dei luoghi abbandonati dall’uomo”. Il terzo paesaggio non è un territorio, è uno spazio incerto. […] Tuttavia, è tra questi margini, al centro di questi spazi trascurati, che si rifugia la diversità biologica, vegetale e animale.[29]
Ed è proprio su questi margini e attraverso le loro potenzialità che lavora, fin dai tardi anni Sessanta, Bonnie Ora Sherk, con l’intento di rimettere al centro la questione ecologica attraverso l’apprendimento pratico e una pianificazione di comunità. The Farm (Crossroad Community) è nato a San Francisco nel 1974 grazie a Bonnie Ora Sherk e Jack Wickert, sotto l’incrocio di uno snodo autostradale in prossimità di un’ex fabbrica. Qui vi rimarrà fino al 1980. Il loro intento era quello di strappare quella terra al cemento costruendoci sopra una fattoria che sarebbe stata un modello per l’educazione ambientale dei bambini in età scolare. Per fare ciò sono stati coinvolti soggetti da diverse discipline e culture nonché animali e piante in gran quantità.
Segnando un nuovo capitolo nella contesa tra gli interessi delle comunità locali e l’incremento della proprietà capitalista, The Farm costituiva una “zona autonoma”, un’esperienza utopico-comunitaria che riuniva sotto il segno dell’arte, la botanica e la coltivazione, l’educazione e il teatro, con l’appropriazione di uno spazio liberato, riconosciuto oltre i limiti dell’istituzione, come diritto politico.[30]
L’esperienza di The Farm si presenta come una pionieristica forma del progetto che Bonnie Ora Sherk svilupperà in seguito e che prenderà il nome di A Living Library A.L.L. (sponsorizzato dall’organizzazione no profit Life Frame, Inc.). A Living Library fornisce una strategia e una metodologia per la pianificazione e il mantenimento di progetti ecologici territoriali che collaborino con diverse comunità e scuole. Attraverso questo processo lo spazio pubblico viene trasformato in un luogo multiculturale e comunitario, dove riflettere insieme sul concetto di ecologia e, nel frattempo, apprendere delle conoscenze pratiche che permettano di trasformare il territorio urbano in un fiorente giardino.
Il recupero e la valorizzazione del paesaggio rurale implica una presa di coscienza riguardo a come riabitare questi luoghi, «rendendoli fertili anche culturalmente e costruendo modelli innovativi per la trasformazione del sapere»[31]. Questi gli intenti dell’organizzazione Casa delle AgriCulture, nata ufficialmente nel 2013 e formata da agricoltori, artisti e attivisti per la difesa dell’agro-biodiversità, che esercitano pratiche di inclusione e sperimentano inediti modelli di resistenza in territori marginali e in via di spopolamento. L’obiettivo è quello di ridare vita ai terreni abbandonati delle campagne, generando un’economia sostenibile e rafforzando il senso di comunità. Attraverso un percorso partecipativo vogliono ripensare l’idea di sviluppo e i modelli agricoli caratteristici delle tradizioni rurali.
I cittadini hanno cominciato a darci le loro terre, usando la formula straordinaria, basata su una grande fiducia, del comodato d’uso gratuito, con contratti anche ventennali. Abbiamo iniziato a coltivare cereali, ortaggi e frutti minori, avviato un piccolo vivaio della biodiversità recuperando, selezionando e riproducendo semi dimenticati, distribuiti ai contadini per strapparli al monopolio delle agrofarmacie, per convincerli a tornare a un’agricoltura naturale senza pesticidi. Ora quel vivaio è pronto a diventare Vivaio dell’Inclusione, perché lì ci lavoreranno anche persone diversamente abili, migranti e anziani – quelle fasce considerate deboli ma che per la nostra comunità hanno un’importanza straordinaria. Cibo sano significa salute, lotta alle malattie. Dobbiamo avere il coraggio di rivendicare questo diritto per chi non ha voce, senza compromessi.[32]
Per concludere questo scritto, prendo in prestito le parole che Bonnie Ora Sherk scrive nel 1977 in occasione del First International Symposium of the San Francisco Art Institute, Center for Critical Enquiry Position Paper e contenuto nell’antologia di saggi e contributi Politiques de la Végétation. Pratiques artistiques, stratégies communautaires, agroécologie a cura di Marco Scotini:
La denominazione di The Farm come arte è forse l’idea più sconcertante e problematica che un’istituzione possa accettare, perché gli elementi coinvolti sono diffusi e per lo sguardo e il pensiero convenzionali risultano difficili da comprendere. The Farm è avanguardia e forse parla al futuro dell’arte. È una cornice di vita – un teatro di vita, e questo ci mette sempre in difficoltà quando parliamo di arte.[33]
In queste parole è racchiusa tutta la potenza che l’arte può avere uscendo da quei confini fisici che le vogliamo imporre per farla restare tale. Quei confini fisici che invece che definirla la limitano. L’arte uscendo per le strade, ma soprattutto entrando nella vita, diventa uno strumento importantissimo per conoscere un territorio e gli elementi che lo compongono, per decostruirlo e rimetterlo insieme pezzo per pezzo in forme di utopie concrete che delineino nuovi possibili modi di abitare uno spazio.
Bibliografia
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Note
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F. La Cecla, Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Milano Elèuthera 2011, p. 49. ↑
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J.M. Besse, Paesaggio ambiente. Natura, territorio, percezione, DeriveApprodi, Roma 2020, p. 18. ↑
-
Ivi, p. 19. ↑
-
Ibidem. ↑
-
J.M. Besse, 2020, op. cit., p. 19. ↑
-
A. Amin, N. Thrift, Città. Ripensare la dimensione urbana, Il Mulino, Bologna 2005, p. 17. ↑
-
F. La Cecla, 2011, op. cit. pp. 16-17. ↑
-
G. Kester. Conversation Pieces. Community and Communication in Modern Art, Berkeley University of California Press 2004, p. 29. ↑
-
M. Maggio, Partecipazione pubblica ed eguaglianza, in “A rivista anarchica”, http://www.arivista.org/?nr=387&pag=27.htm ↑
-
G. Kester 2004, op. cit., p. 12. ↑
-
J.M. Besse 2020, op. cit., p. 78. ↑
-
Ivi, pp. 109-110. ↑
-
T.J. Demos, Decolonizing Nature, Contemporary Art and the Politics of Ecology, Sternberg Press, Berlin 2016, p. 19. ↑
-
B. Pietromarchi, Il luogo (non) comune. Arte, spazio pubblico ed estetica urbana in Europa, Actar, Barcellona 2005, p. 213. ↑
-
J.M. Besse 2020, op. cit., p. 111. ↑
-
Milano attraverso Stalker, Architettura in movimento. Galleria Opos Milano 1998, in «Articiviche», http://articiviche.blogspot.com/p/appuntamenti.html ↑
-
Osservatorio Nomade – Immaginare Corviale, in «Libreria Editrice Ossidiane», https://www.ossidiane.it/osservatorio-nomade-immaginare-corviale/ ↑
-
B. Pietromarchi 2005, op. cit., p. 33. ↑
-
Bolzanism, in «bølȥåñiɱuȿẹùm», https://www.bolzanism.com/portfolio/bolzanism/ ↑
-
B. Pietromarchi, 2005, op. cit., p. 205. ↑
-
F. Comisso, L. Perlo, M. Vecellio, NERO (a cura di), COMP(H)OST. Immaginari interspecie, NERO Editions, Roma 2021, p. 135. ↑
-
Ivi, p. 133. ↑
-
Ivi, p. 136. ↑
-
Ivi, p. 163. ↑
-
Ivi, p. 170. ↑
-
Ivi, p. 171. ↑
-
B. Pietromarchi 2005, op. cit. p. 41. ↑
-
Ibidem. ↑
-
J.M. Besse 2020, op. cit., p. 22. ↑
-
The Farm (Crossroad Community), di Bonnie Ora Sherk, in «HOT POTATOES», 27 dicembre 2019, http://www.hotpotatoes.it/2019/12/27/the-farm-bonnie-ora-sherk/ ↑
-
F. Comisso, L. Perlo, M. Vecellio, NERO (a cura di) 2021, p. 81. ↑
-
Ivi, pp. 81-82. ↑
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Testo riportato nell’articolo The Farm (Crossroad Community), di Bonnie Ora Sherk, 2019, op. cit. ↑