La città come processo di ordine e conflitto

Into the Black BoxCittà ostile | Vol. I | Futuri urbani


In questo scritto presentiamo una riflessione teorica sulle trasformazioni storiche della città a partire dal tema del e della . Riteniamo infatti che questi due vettori siano le matrici cruciali per inquadrare le mutazioni che, oggi come ieri, intercorrono nel continuo ridefinirsi dell’urbano. In prima battuta presentiamo una panoramica concettuale che introduce alcuni topoi del pensiero politico europeo della città, analizzandoli appunto a partire dalle differenti configurazioni che in essi il conflitto viene ad assumere. In secondo luogo approfondiamo invece due concezioni, quella di metropoli e quella di , collocandole all’interno di questo quadro e mettendone in rilievo l’intreccio costitutivo tra logistica e conflitto. Questo testo cerca dunque di proporre per immagini sintetiche una griglia di intellegibilità del politico urbano indicandone sia le lunghe traiettorie storico-concettuali di provenienza che le sue declinazioni materiali in termini di soggetti sociali e di infrastrutture tecnologiche. 

Il politico tra polis, Comune e Metropoli

Pensare politicamente la città e pensare la politica attraverso la città. In questo contributo intendiamo proporre alcune approssimazioni su questo tema con un approccio multidisciplinare che spazia con metodo genealogico dalla teoria politica alla sociologia, portando in evidenza come il tema del conflitto sia il criterio cruciale per comprendere il mutare del tessuto urbano, sia storicamente sia nella contemporaneità. Per iniziare questo itinerario, è necessario andare alla ricerca delle radici con le quali è possibile guardare con gli occhi della città, adottando dunque un punto di vista dislocato rispetto allo “sguardo dello Stato” usualmente adottato dalla teoria politica, il quale si pensa come assoluto, indivisibile e zenitale. Nel momento in cui anche la sovranità diviene sempre più policentrica e frammentata, seeing like a city consente l’apertura di nuovi orizzonti di ricerca che vengono qui definiti a partire dalla necessità di urbanizzare il pensiero politico.

Le radici, si diceva. Per quanto attiene il pensiero europeo, è inevitabile rifarsi alla polis, definita dalla politica occidentale quale proprio presupposto («la città, la polis, è la prima forma politica»). La scienza politica greca è infatti una «scienza della città», una «scienza dell’esperienza primaria del politico» che ricorda come nella storia europea la città sia da sempre un processo di ordine e conflitto, il tentativo irrisolvibile di trovare una forma stabile al contrasto che sin dai primordi rammenta come polis e polemos siano fatte della stessa sostanza. Questa consustanzialità è stata tuttavia a lungo rimossa dagli storici, anche e soprattutto a partire dal fatto che presso gli antichi greci la polis era raccontata come sinonimo di unità, in contrapposizione dunque al polemos. Un elemento tuttavia eminentemente ideologico, una vera e propria “ideologia ateniese”, ossia una rappresentazione ideale che trasmette l’immagine rassicurante che i greci intendono offrire di loro stessi, quel convincimento per cui la città è (ed è sempre stata) «una, indivisibile e in pace con se stessa». Un’ideologia come elemento di ordinamento e pacificazione sociale che non è compatta a tal punto da eliminare tensioni e contraddizioni che articolano il corpo sociale della polis, ma è sufficientemente forte da rappresentare un luogo di mediazione del conflitto, dove esso può apparire come solubile. La città è dunque in questa prospettiva un prodotto della struttura sociale e delle sue contraddizioni che ne determinano i processi di sviluppo e dissipazione. L’elaborazione dell’idea di polis è infatti una risposta politica a una sociale ed economica: «politici sono i suoi strumenti di finanziamento dei consumi, politici i vettori della sua riproduzione; con la politica, infine, si identifica il lavoro del cittadino», e in essa la politica «tende ad assumere la funzione, direttamente o indirettamente, dei rapporti di produzione». La crisi in questione è legata sostanzialmente ai processi di privatizzazione del suolo iniziati nel VIII secolo a.C. È questo atto che frattura e stratifica la comunità, producendo un’articolazione censitaria che registra i dislivelli nella distribuzione della ricchezza – derivata dalla terra – a produrre spinte caotiche. L’invenzione della polis come entità politica diviene allora strumento di contenimento di tali elementi disgreganti il corpo sociale. Di fronte a questo destabilizzante punctum dolens la polis ripristina «almeno in linea di principio la eguaglianza politica di tutti i cittadini», e si prospetta come ritrovato spazio pubblico rispetto al quale esiste un diritto di gestione comune, alludendo a un passato tribale a monte della privatizzazione e in grado di rimarginare la ferita che essa rappresenta. Non c’è un ritorno indietro possibile dalla privatizzazione della terra verso nuove redistribuzioni o socializzazioni, ma la proprietà dei fondi – seppur notevolmente diseguale – consente ai membri del corpo sociale, grazie alla cittadinanza, di accedere a questo nuovo spazio comune posto però al di fuori della terra. «Questo nuovo koinon è la città», annotano Diego Lanza e Mario Vegetti, e «il politico, e la città che lo struttura, producono immediatamente propri vettori ideologici e propri meccanismi di funzionamento». La condivisione isonomica è uno dei fattori principali che compongono la figura che i cittadini intendono dare di loro stessi. La vita politica greca gravita dunque tra polis (unità), polemos (guerra-distruttiva) e stasis (conflitto, soglia di politicizzazione), ma il politico greco si regge su un movimento opposto a quello all’origine del moderno. Nicole Loraux spiega infatti come sia

l’oblio, dunque: ecco la chiave del politico greco […] esiste un rapporto privilegiato tra la negazione del conflitto e la democrazia antica […] l’oblio oscilla sempre tra la censure ideologica […] e la volontaria soppressione di ciò che la comunità dei cittadini ha scelto di non ricordare.

È proprio questo elemento che, come vedremo, quando una nuova “città”, la Metropoli, inizierà a sorgere nell’Ottocento, molti contemporanei cercheranno ad Atene quella rassicurante immagine di condivisione isonomica volta a celare il fatto che «al centro del politico sta virtualmente – talora anche realmente – il conflitto e che la divisione in due, considerata una calamità, è l’altra faccia della nostra bella Città-una».Vedere come una città, attraverso la città, stimola a intendere la realtà politica come composta da una pluralità di aggregazioni, che non sono tuttavia autonome ma che, coagulandosi e scontrandosi, si definiscono come appartenenti a una dimensione comune. Sia essa una città o un mundus, ciò induce al tema del governo. O meglio sarebbe dire del «binomio governo-pluralità», della coppia dialettica di cosmos e chaos. Se «conflitto e ordine sono infatti concetti autosufficienti e significanti solo sul piano neutralizzato dischiuso dai concetti moderni», liberarli dalle maglie di questo lessico forgiato sullo Stato strutturando un seeing like a city può contribuire a un

pensare la pluralità dei soggetti politici. Se non lo si fa e si rimane all’interno della dualità-identità di soggetto individuale e soggetto collettivo, non si riescono a superare le contraddizioni sopra emerse e non si riesce a pensare in modo effettivo e costituzionale l’agire politico dei cittadini.

Se il politico greco ha quale sua chiave quella dell’oblio del conflitto e della natura violenta del vivere consociato, oscillando tra censura ideologica e soppressione volontaria del ricordo, il pensiero politico moderno si apre in maniera opposta. La soglia del moderno, che possiamo situare tra il dissolversi dell’epoca dei Comuni (la seconda grande figura politica urbana, dopo la città antica e prima di Metropoli) e l’affermarsi delle prime forme di Stato moderno, può essere colta a partire dalla Firenze di Machiavelli. Nelle Istorie vengono descritti i noti tumulti dei Ciompi, e si legge che

gli uomini plebei adunque, così quelli sottoposti all’Arte della lana come alle altre, per le cagioni dette, erano pieni di sdegno: al quale aggiungendosi la paura per le arsioni e ruberie fatte da loro, convennero di notte più volte insieme, discorrendo i casi seguiti e mostrando l’uno all’altro ne’ pericoli si trovavano.

I plebei temono le ritorsioni per i loro atti di rivolta, e durante questa discussione Machiavelli fa prendere voce a un anonimo Ciompo («alcuno de’ più arditi e di maggiore esperienza, per inanimire gli altri, parlò in questa sentenza») che pronuncia un celebre discorso così introdotto: «il multiplicare adunque ne’ mali ci farà più facilmente trovare perdono, e ci darà la via ad avere quelle cose che per la libertà nostra di avere desideriamo». È necessario dunque aumentare «i mali». Cosa significa? Questa frase del Ciompo dimostra come non ci si possa attendere nessuna amnistia, ma una vendetta da parte dei ceti nobiliari dalla quale ci si può cautelare solo “aumentando i mali”, ossia aumentando il proprio potere di parte sulla bilancia dei rapporti di forza, usando un linguaggio odierno. Elemento che Machiavelli addita quale causa della mancata capacità di Firenze di far funzionare in maniera produttiva il contrasto sociale ai fini dell’accrescimento della Repubblica. Non c’è oblio possibile, perché ciò che sta mutando nelle correnti del politico è il fatto che tra Machiavelli e il Thomas Hobbes teorico dello Stato, pur su sentieri contrapposti, è proprio il ricordo dell’origine violenta del politico a definire uno scarto rispetto al pensiero antico. O meglio e conseguentemente più che un’alternativa tra “politicità naturale” degli antichi e artificialità della costruzione politica dei moderni, si delinea una contrapposizione proprio attorno al nodo tra rimozione o rimemorazione del conflitto originario (da riattivare o da superare col contratto passando da Machiavelli a Hobbes).

Machiavelli è un “politico della città” tinto da cromie eraclidee. Infatti mentre Carl Schmitt – il pensatore che nel Novecento ha strutturato la categoria del politico – cerca una “forma” che nell’illegittimità del moderno possa contenere le spinte disgreganti del rapporto costitutivo amico/nemico, in Machiavelli la forza e la virtù sono figure della decisione politica che trovano nel conflitto un elemento costitutivo e non lo temono – esso può anzi essere glorioso e fine in sé. Schmitt invece teme il conflitto, lo vede come ordine negato rispetto al quale il decisionismo sovrano funziona come contenimento. La co-implicazione originaria tra conflitto e politica è un continuum da organizzare per Schmitt, da agire per Machiavelli. Schmitt vede il politico come origine e unità, mentre Machiavelli pensa il politico come la città, ossia come dinamica e processo. In questo senso lo Stato di Machiavelli non combacia in nulla con la moderna teoria della sovranità: non c’è unità ma un pendolare tra governo e autogoverno, «mantiene nel proprio significato il rimando a una moltitudine che può governarsi o deve essere governata». Con l’irruzione della teoria hobbesiana dello Stato i termini del discorso si rovesciano, e a partire dal XVII secolo la città svanisce come soggetto dell’elaborazione politica. Riapparirà, trasfigurata, nel corso del XIX secolo, sotto l’impeto di nuovi processi di urbanizzazione e delle radicali innovazioni dell’economia politica che sono passate alla storia come Rivoluzione industriale.

La metropoli è l’emblema di questo passaggio, e si determina come struttura politica che concentra la molteplicità dell’attività umana. È qui che burocrazia e politica, finanza e industria, capitale e lavoro vivo (organizzazione massificata del lavoro e relative esigenze) trovano un luogo che rompe in maniera irreversibile con gli equilibri microeconomici della precedente città in concomitanza con l’affermarsi di un’economia mondiale. La metropoli è dunque lo spazio dell’interazione conflittuale tra questa serie di fattori, che in essa vengono compresi, con essa si rappresentano, e tramite essa vengono dominati. La metropoli

tenta un controllo delle contraddizioni per trovare un ordine, pur di fronte all’impossibilità di una sintesi. Se fosse possibile trovarla, si sarebbe allora di fronte alla città, mentre la Metropoli viene costruita sul conflitto e la funzionalità di questo, nel programmatico squilibrio.

La metropoli dunque come superamento dialettico della città e come forma di crisi per lo Stato moderno a partire dai nuovi processi di industrializzazione. È per questo che molti pensatori ottocenteschi tornano a guardare a Atene. Come sviluppare per la metropoli un pensiero in grado di produrre unità e appianare il conflitto? Questa pare una delle domande che guida questo filone di riflessione. Ma il costituirsi della città come struttura conflittuale, come lotta, solleva un problema politico che non è più risolvibile al suo interno. La città come tale non può più risolvere, fare sintesi o comunque gestire il conflitto che in essa è esploso. In questo senso in Max Weber si determina il passaggio dalla Stadt allo Staat, perché solo nello Stato il problema posto dalla città può venir risolto. La modernità dunque integra nell’ordine dello Stato razionale la città, e la città “diventa” lo Stato: «la città è lo Stato, è il processo complessivo di razionalizzazione, è il conflitto di classe dentro lo sviluppo capitalistico». Tuttavia l’elemento dell’illegittimità che Weber rintraccia come origine del Comune medievale non scompare. Rimane anzi come carattere strutturale, e la nascita della metropoli può far prefigurare l’affacciarsi dello spettro del Medioevo, il riaprirsi del vuoto della legittimità. Nella metropoli non c’è più la possibilità di un popolo; ma mentre la città era una forma di autogoverno politico del popolo, nella moderna “vittoria” dell’individuo c’è un capovolgimento che rende la città un’impersonale “comunità di mercato” con le proprie istituzioni burocratiche. Il problema politico della metropoli si pone dunque rispetto a elementi e temi nuovi, che Weber per primo è in grado di mettere a sistema.

La metropoli come spazio logistico e di contesa

Superamento della città e crisi dello Stato moderno; struttura conflittuale e impersonale “comunità di mercato”: lo spazio urbano nel corso dell’Ottocento è un gomitolo di sguardi e prospettive, al contempo amplificatore e sintesi di molteplici processi in corso al cui interno si proiettano le ombre sempre più intense della dei mercati. In linea generale vale assumere ed espandere quanto Fernand Braudel scriveva a proposito della Londra di inizio secolo, indubbiamente una delle prime città a divenire metropoli: «enorme polmone esigente che tutto ritma, sovverte e placa. Si aggiunga la funzione culturale, intellettuale, nonché rivoluzionaria di queste vere e proprie serre». La città che si fa metropoli nel XIX secolo è figlia dalla prima “rivoluzione industriale” che impose rilevanti trasformazioni nel tessuto urbano anche se non necessariamente in termini esclusivamente di capacità produttiva, anzi: è soprattutto in termini logistici che rileviamo il mutamento più sostanziale (la capitale inglese è forse l’esempio più paradigmatico). Allo stesso modo, la metropoli che nasce nel corso dell’Ottocento è figlia dei conflitti che in essa si producono ed entro cui divampano, aizzati da nuovi soggetti e da nuove forme di conflitto (in questo caso l’esempio certo più conosciuto è la Parigi di metà Ottocento, di cui hanno scritto magistralmente tra gli altri Walter Benjamin e Henri Lefebvre). Sospinte da differenti moti spesso intrecciati, il XIX secolo vede dunque le città mutare profondamente, in un processo che non si esaurisce certo nell’Ottocento ma che esonda nel secolo successivo, scandito ancora una volta dal ritmo delle nuove “rivoluzioni industriali” utili a imprimere accelerazioni ai processi in corso. Prendendo un esempio dal XIX e uno dal XX secolo, nei prossimi paragrafi esamineremo brevemente due modi alternativi ma complementari della città di farsi metropoli. Nel primo esempio, Londra ci mostrerà la nascita della metropoli attraverso la mobilità e la logistica; nel secondo caso, a Berlino vedremo la metropoli costruita sul conflitto.

La prima “rivoluzione industriale” ebbe effetti di industrializzazione limitati – benché importanti – sulla città di Londra. Ancora secondo Braudel, «è un fatto che le capitali assisteranno alla rivoluzione industriale che sta per affermarsi da spettatrici. Non Londra, ma Manchester, Birmingham, Leeds, Glasgow e innumerevoli cittadine proletarie lanciano i tempi nuovi». A ben guardare, in realtà, alle soglie del XIX secolo anche la capitale inglese sviluppò enormemente un comparto manifatturiero che ebbe un profondo impatto sulla città vista l’istallazione, ad esempio, di grandi raffinerie di zucchero o tabacco (non a caso, prodotti di importazione coloniale). Lo fa notare tra gli altri lo storico Leonard Schwarz che sottolinea come, a metà Ottocento, Londra impiegasse nelle attività di fabbrica un terzo della forza lavoro maschile. Ciò produsse nuovi quartieri a forte caratterizzazione proletaria specie nelle zone dell’East End e, più in generale, vide mutare la geografia sociale ed economica della città grazie a una seconda accelerazione notevole dovuta ai commerci e ai lavoratori ivi coinvolti. Più degli operai furono infatti portuali e amministrativi (o in generale operatori dei servizi) a comporre la maggioranza dei lavoratori salariati, a cui andrebbero aggiunti migliaia di “street sellers” (descritti dalle importanti inchieste di Henry Mayhew) e l’esercito di facchini. A fine Settecento, le navi sul Tamigi erano raddoppiate rispetto alla metà del XVIII secolo, così come raddoppiato era il numero di tonnellate di merci in entrata provenienti dai quattro angoli del vasto impero inglese. Ciò fu assorbito dal nascere di una nuova classe di lavoratori poco valutata nella storiografia eppure cruciale nella comprensione dei cambiamenti che Londra visse all’alba del XIX secolo.

Oltre a questa nuova platea di lavoratori (un vero e proprio proletariato logistico), a imprimere una reale spinta verso la logistificazione della città fu l’imporsi di numerose nuove infrastrutture: è la mobilità che trasforma in metropoli la capitale inglese. Fino all’alba del XIX secolo il trasporto merci avveniva ove possibile attraverso il sistema dei canali. Tuttavia, come sottolinea Sydney Pollard, «non appena si costruirono le ferrovie, quasi tutto il sistema dei canali divenne inutile e cadde in disuso». A partire dagli anni Trenta del XIX secolo l’impatto delle ferrovie fu massiccio ed evidente. Mappe dell’epoca mostrano una città che da un lato allungava i tentacoli verso le altre zone dell’isola; dall’altra evidenziano il nuovo sistema nervoso urbano, costituito da ferro e cemento, che grazie ai nuovi mezzi di trasporto anche passeggeri (la prima linea metropolitana è inaugurata nel 1863) permise una rapida espansione dell’abitato. 

La “migrazione” delle classi più abbienti verso l’esterno diede ulteriore impulso al rinnovamento logistico. Opere infrastrutturali utili ad ampliare gli “spazi di flussi” si abbattevano senza troppa reticenza sugli slums e sulle abitazioni della classe povera: «much of the housing for the poor was demolished for commercial spaces, or to make way for the railway stations and lines that appeared from the 1840s […]. Thus, the homes of the poor were always the first to be destroyed». Linee ferroviarie, nuove stazioni, ma anche rinnovamento dei porti e nuove imponenti strade (come la “Commercial Road” che collegava la City con i porti a Est) vennero realizzate nell’arco di una manciata di anni al sorgere del XIX secolo: la proiezione globale della città a seguito della “rivoluzione industriale” era sempre più marcata. Londra divenne una metropoli-mondo logistica.

A fronte di questa disamina appare lecito sostenere che un simile rapido rinnovamento abbia contribuito in maniera significativa a disinnescare sul nascere moti di rivolta prevalentemente urbani che negli anni Quaranta dell’Ottocento invasero il resto del continente europeo. La mobilitazione di risorse ingenti provenienti dall’impero permise da un lato la rapida infrastrutturazione della città suddividendo slums e altri quartieri popolari (ambienti da cui spesso partivano le mobilitazioni – si pensi al caso di Parigi); dall’altro, di offrire situazioni economicamente più vantaggiose alla classe lavoratrice: «Only by mobilizing the resources of the empire was the British state able to deploy the law and the fiscal system against the forces of revolution in the late 1840s». La logistificazione della città ebbe dunque anche l’effetto di anticipare la conflittualità sociale, calmierandola in maniera non certo definitiva ma sostanziale. Del resto, è con le stesse strategie che il barone Von Haussman cambiò il volto sociale e strutturale di Parigi dopo i moti del 1848. A seguito delle rivolte – è storia nota – Napoleone III convocò il barone per affidargli un’opera di profondo rinnovamento urbanistico della città. Come scrive David Harvey, «Haussman comprese subito che il senso dell’operazione era di contribuire a risolvere, attraverso l’urbanizzazione, il duplice problema rappresentato dal surplus di capitale e dalla disoccupazione di massa». E in questo senso agì promuovendo un rinnovamento infrastrutturale imponente che fu al contempo un «potente strumento di stabilizzazione sociale». Possiamo affermare che Londra evitò una tale situazione grazie ai lavori di logistificazione di inizio secolo.

Un esempio di metropoli “costruita sul conflitto” invece che sulla mobilità, oltre al caso appena accennato di Parigi, lo possiamo trovare nella Berlino di inizio XX secolo. In linea generale, a seguito di quella comunemente definita come “seconda rivoluzione industriale”, la Germania visse «the highest strike frequency in German labour history». Considerata la società industriale più avanzata in Europa, era lo stesso Marx a considerare la Germania come la prossima possibile tappa della rivoluzione proletaria, e in questo senso la capitale tedesca rappresentava un nucleo d’avanguardia. Dal 1888 in avanti, a Berlino il numero di scioperi e lavoratori in conflitto crebbe enormemente. La classe operaia aumentò in numero, in efficacia e in strutturazione anche grazie alla nuova organizzazione del lavoro che vedeva imporsi le grandi fabbriche quali standard del sistema produttivo: come nota ancora Boll «the changes in production techniques and organization that took place in the course of the industrial revolution created an entirely new framework for labour relations». Impianti come la Siemensstadt posti al centro della città sul fiume Spree, andavano a impiegare una platea di lavoratori sempre più ampia e sempre più pronti a partecipare al conflitto. E la fabbrica Siemens era solo una delle tante:

workers of […] large firms – scrive Ilse Costas – in the electrical industry, such as AEG, and in the machinery and metal industries, such as Borsig, L. Schwarzkopff, L. Loewe and the German Weapon and Ammunition Works (Deutsche Waffen- und Munitionsfabriken), participated in a decisive way in strike actions and in establishing oppositional workers’ councils.

L’imporsi di Berlino quale «the most importan industrial town» della Germania, accompagnata dall’imponente ciclo di lotte operai di inizio secolo, andò di pari passo con la sua logistificazione. L’istallazione di numerose nuove linee ferroviarie pervase la città e, al contempo, si infittì la rete che la collegava ad altre zone del paese come la Ruhr. Inoltre, la forte migrazione dalle province limitrofe condusse a un allargamento dei “confini” cittadini la cui formalizzazione avvenne nel 1920 con il Groß-Berlin-Gesetz (“l’atto per la grande Berlino”) che portò la città ad allargare formalmente i bordi dell’abitato e raggiungere i quattro milioni di abitanti.La rimodulazione di Berlino da città a metropoli nel primo dopoguerra incontrò poi le ambizioni di Hitler che, tramite il suo architetto Albert Speer, progettava per la città ristrutturazioni simili a quelle avvenute a Parigi con Haussman. Come racconta lo stesso Speer, Hitler «regarded Haussmann as the greatest city planner in history, but hoped that I would surpass him». Il gigantismo che aveva in mente sia nella costruzione delle strade sia degli edifici aveva molteplici implicazioni, che rispecchiavano tuttavia quelle di Haussmann. In primo luogo, rispondeva all’esigenza di realizzare la capitale dell’impero, pronta ad accogliere nella sua maestosità ingenti flussi di merci e persone. In secondo luogo, ambiva alla creazione di una città di flussi, dove gli spazi dello stare erano consciamente intrecciati agli spazi della mobilità. Infine, riprendendo quanto scrive l’antropologo Gastòn Gordillo, l’architettura era vista come arma di controllo e soggezione:

they were interested, rather, in an architecture weaponized as anapparatus of affective capture designed to create what geographer Ben Anderson calls affective atmospheres: spatial environments that exert pre-discursive, not-fully conscious pressures on the body.

La città aumentata

Il terzo scenario – dopo quello della città e quello della metropoli – su cui vorremmo soffermarci è rappresentato dalla smart city. In prima battuta, potremmo definire le città intelligenti come quelle che connettono «l’infrastruttura fisica, l’infrastruttura informatica, l’infrastruttura sociale e l’infrastruttura aziendale per sfruttare l’intelligenza collettiva della città». Se da un lato costituiscono un fenomeno globale, dall’altro nel Nord del mondo l’etichetta di smart city è stata utilizzata prevalentemente per definire miglioramenti infrastrutturali in città esistenti, mentre nel cosiddetto Global South è stata perlopiù adoperata all’interno di processi statuali di urbanizzazione ex novo per governare i flussi di persone che dalle campagne si spostano nelle città. Il termine smart city è stato applicato, infatti, per la prima volta a metà degli anni Novanta per definire le nuove urbanizzazioni in corso in Australia e Malesia. Tali città erano smart in quanto la loro infrastruttura ICT aveva lo scopo di «dirigere il funzionamento della città» nella sua totalità. Un secondo e cruciale momento di diffusione del concetto di smart city si è avuto dopo il 2008, quando le aziende private del settore ICT hanno iniziato a investire massicciamente nello sviluppo di infrastrutture tecnologiche e informatiche a livello urbano. IBM, ad esempio, ha promosso la Smarter Cities Challenge fornendo alle municipalità di tutto il mondo consulenze gratuite per la digitalizzazione dei loro servizi. Si tratta, quindi, di un concetto che mette insieme un ventaglio variegato di immaginari politici, modelli di pianificazione urbana e tecnologie digitali. Detto diversamente, la smart city è il prodotto dell’interazione fra l’urbanizzazione planetaria, la diffusione globale delle piattaforme digitali e le politiche economiche neoliberali. Secondo geografi come Neil Brenner e Christian Schmid, anche il concetto di metropoli è ormai per certi versi superato perché si basa ancora su una distinzione netta fra urbano e non-urbano (dalla campagna alle banlieu):

The demarcations separating urban, suburban, and rural zones were recognised to shift historically, but the spaces themselves were assumed to remain discreet, distinct, and universal. While paradigmatic disagreements have raged regarding the precise nature of the city and the urban, the entire field has long presupposed the existence of a relatively stable, putatively “non-urban” realm as a “constitutive outside” for its epistemological and empirical operations.

Tuttavia i due affermano che oggi l’urbano non può più essere riferito a un particolare tipo di insediamento spaziale, come ad esempio la città metropolitana o la megalopoli. L’urbanizzazione planetaria abbraccia spazi – dalle rotte transoceaniche alle reti ferroviarie – che solitamente collochiamo al di là dell’urbano ma che ormai fanno parte integrante del suo tessuto economico e sociale. L’urbano è esploso, ha inghiottito altre spazialità facendo venire meno l’idea di città come spazio definito. 

Questo processo di planetarizzazione dell’urbano ha ricevuto un’accelerazione decisiva dall’avvento della rivoluzione e dallo sviluppo globale delle cosiddette piattaforme. Il virtuale ha aperto una nuova dimensione spaziale che si aggiunge a quelle “fisiche” dando vita a una città “aumentata”. Il cloud, l’internet delle cose, i big data fanno ormai parte della vita urbana e determinano i processi di sviluppo del territorio. Un ruolo importante all’interno di questo processo di digitalizzazione lo giocano attori privati che sono ormai in grado di determinare le scelte politiche ed economiche delle città. Uno dei punti di forza delle piattaforme sta nella loro estrema resilienza, la capacità di adattare un set di regole e comportamenti omogenei (management algoritmico, estrazione di dati, razionalità logistica) ai contesti più disparati. In tal modo contribuiscono all’espansione planetaria dell’urbano e, allo stesso tempo, alla sua ridefinizione. 

C’è poi un terzo fattore da prendere in considerazione: gli effetti della temporalità lunga della ragione neoliberale. L’ascesa delle smart city va collocata nel contesto del divenire impresa della governance urbana, in cui le città devono competere su scala globale per attrarre investimenti facendo proprie forme di imprenditoria. I tagli e l’efficientamento della spesa pubblica hanno contributo alla creazione di partnership pubblico-private con aziende high-tech al fine di fornire servizi alla popolazione residente. Gli investimenti privati in infrastrutture urbane digitali, dunque, possono essere connessi fondamentalmente a tre ragioni: estrazione di dati, competizione geopolitica e nuove opportunità di profitto e potere. Nick Srnicek sostiene che «le città vengono reimmaginate, abbastanza letteralmente, come un’estensione dell’apparato di estrazione dei dati delle piattaforme più grandi». In altre parole, lasciare che le aziende hi-tech assumano la costruzione e la fornitura della “pelle digitale” delle città fa sì che le amministrazioni locali e il corpo sociale della città siano sempre più dipendenti da tali aziende e spesso incapaci di stabilire le condizioni alla base di queste partnership.

La smart city quindi si colloca all’incrocio fra l’estensione planetaria dell’urbano, la dimensione globale della digitalizzazione e l’imprenditorializzazione della spazialità: è la riconfigurazione di un’urbanità a partire da processi estrattivi e di messa a lavoro diffusi grazie allo sviluppo di infrastrutture digitali. Tuttavia, una definizione di città intelligente solo dal punto di vista tecnologico o imprenditoriale rischia di occultare i conflitti che l’attraversano. Le infrastrutture digitali sono ben lungi da operare in maniera neutra, così come le imprese big-tech non sono gli unici attori di questa trasformazione urbana. La questione, quindi, diventa quali vantaggi si possono ottenere con le tecnologie smart e quali residenti urbani e altri attori ne beneficeranno. Come il tessuto urbano diventa terreno di valorizzazione capitalistica, così la governance urbana diventa terreno di conflitto: va messa in luce la dimensione sociale e politica delle smart city all’interno di quel più ampio significante che chiamiamo democrazia, e con questa il ruolo delle tecnologie digitali nella produzione di forme di disciplinamento e disuguaglianza sociale. Le forme di vita urbana non si limitano a quelle “addomesticate” dei data-point (generatori di dati) o degli utenti di applicazioni per smartphone. Dai tangpingers che rifiutano in toto i dispositivi di cattura all’interno delle infrastrutture digitali ai lavoratori di piattaforma in lotta, le strutture di potere alla base della città aumentata vengono messe in questione a partire da punti d’attacco differenti. Queste azioni di sabotaggio o resistenza che combinano il rifiuto della messa a lavoro per le piattaforme con la costruzione in nuce di una contro-logistica urbana e digitale veicolano a loro volta questioni più complessive in merito al rapporto fra potere delle infrastrutture, partecipazione ai processi decisionali e distribuzione delle risorse. 

Il contesto pandemico ha rappresentato un momento di ulteriore accelerazione del processo di digitalizzazione degli spazi urbani, consegnando alle piattaforme un ruolo sempre più infrastrutturale. La vita urbana è sempre più una vita digitale e le forme di vita che attraversano gli spazi della metropoli si configurano sempre di più come soggettività algoritmiche. Ogni attività umana viene immediatamente codificata e decodificata in un meccanismo di estrazione e accumulazione di dati che è alla base del potere delle piattaforme. Di fronte a questa datificazione della cooperazione sociale metropolitana non si stagliano solamente problemi di privacy – ovvero di pervasività e consenso rispetto a questi meccanismi – ma anche di democrazia e redistribuzione della ricchezza. Chi decide, infatti, rispetto all’uso governamentale di questi dati? Le informazioni non sono solo “fatti privati” da custodire o cedere volontariamente, sono soprattutto fattori che permettono la gestione e produzione di comportamenti. La mancanza di dati certi impedisce, ad esempio, alle amministrazioni di sviluppare politiche locali mirate a indirizzare lo sviluppo della smart city se non affidandosi agli attori privati, così come l’opacità dell’algoritmo impedisce ai lavoratori di poter controllare il processo produttivo. Allo stesso tempo, siamo davanti a una produzione collettiva e cooperativa di dati che costituiscono la base per i processi di valorizzazione su cui si fonda la rapida espansione delle piattaforme. Di questa ricchezza, però, beneficiano esclusivamente e ancora una volta i soggetti privati che hanno il controllo dell’infrastruttura digitale. 

Lungi dal permettere un’espansione urbana pianificata e pacificata, la città aumentata è intrisa di conflitti che sfidano la ragione neoliberale e la governamentalità delle tecnologie digitali. L’innovazione tecnologica e l’etica imprenditoriale trovano nella urbanizzazione planetaria non solo una dimensione di territorializzazione ma anche una circolazione globale di forme di resistenza e sabotaggio che giocheranno negli anni a venire un ruolo determinante nella ridefinizione dell’urbano.


Note

1 Il primo paragrafo è di Niccolò Cuppini, il secondo di Mattia Frapporti, il terzo di Maurilio Pirone. L’elaborato è comunque frutto di una riflessione condivisa tra i tre autori e più in generale del lavoro del percorso di ricerca Into the Black Box: www.intotheblackbox.com.

2  Vedi W. Magnusson, The Politics of Urbanism: Seeing like a City, Routledge, London – New York 2011.

3  P. Manent, Le metamorfosi delle città. Saggio sulla dinamica dell’occidente (2010), Rubbettino, Cosenza 2014, p. 34.

4 Ivi, p. 35.

5  Tema ampiamente dibattuto, si veda ad esempio R. Esposito, L’origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Donzelli Editore, Roma 1996, pp. 43-50.

6  La sfumatura del concetto di ideologia alla quale si fa qui riferimento muove all’interno di un paradigma di sorgente marxiana (in particolare a L’ideologia tedesca scritto da Marx ed Engels tra il 1845 e il 1846, ma pubblicato solo nel 1932), mettendo in luce soprattutto la funzione tramite la quale essa si definisce, ossia quale strumento per la rimozione, o quantomeno l’attenuazione di un conflitto.

7  Frase che ritorna spesso in D. Lanza, M. Vegetti, L’ideologia della città, in «Quaderni di storia», 2/1975, pp. 1-37.

8 D. Lanza, M. Vegetti, G. Caiani, F. Sircana, L’ideologia della città, Liguori, Napoli 1977, p. 21.

9 Ibidem

10  Ivi, p. 15.