Iacopo Zetti | Città ostile | Vol. I | Futuri urbani
Nel corso dei seminari organizzati sotto la chiave interpretativa di Criticity mi è stato proposto di riflettere sul tema dell’eccedenza, legata alla città. Naturalmente la parola “eccedenza” ha una molteplicità di significati già nella sua definizione da dizionario. Indica il dizionario Treccani on-line:
1. L’eccedere, il superare un limite determinato […] 2. concr. a. La quantità, la parte che supera i limiti stabiliti, o che in un conteggio risulta in più […] b. Nel linguaggio econ. (come traduz. dell’ingl. surplus), indica la differenza in più, in un determinato mercato, dell’offerta […] rispetto alla domanda.[1]
Evidentemente, il filo comune delle definizioni è il “di più” che il concetto contiene; ma come può questo essere utile nel discutere del futuro urbano? Come applichiamo questo filtro di lettura alla città?
Le note che seguono – senza la pretesa di fornire un quadro di lettura dell’urbano contemporaneo esaustivo, che richiederebbe ben altra trattazione – cercano di utilizzare questo concetto per aprire alcune riflessioni che collegano un’idea di città pubblica ad alcune Retoriche oggi diffuse e queste a un uso degli spazi urbani che di questi ultimi ridefinisca il significato.
Questo testo deriva direttamente dalla conversazione che si è tenuta il 26 novembre 2020 in occasione del seminario Criticity e che aveva per tema “Ecologia e città tra retorica, eccedenze e residui”, non ne costituisce però la trascrizione, bensì una rielaborazione a posteriori. Del discorso parlato cerca di mantenere la rapidità anche se, temo, porta con sé la necessità di saltare alcuni passaggi e quindi il non estremo rigore di cui i lettori spero mi scuseranno.
Cos’è la città?
Definire il termine città appare scontato: «Centro abitato di notevole estensione, con edifici disposti più o meno regolarmente, in modo da formare vie di comoda transitabilità…» (nuovamente Treccani on-line) eppure, come sempre accade, le parole hanno significati ben più complessi della prima definizione. La stessa voce di dizionario infatti sottolinea: «lat. civĭtas -atis, “condizione di civis”», ricordando dunque che quella di città non è solo una situazione oggettuale, ma anche una condizione. Il significato di questa seconda caratteristica, che è certamente più rilevante della prima, è però molto più scivoloso del decidere quale sia la misura che individua la «notevole estensione» richiesta. Ricordiamo per altro che, in diversi contesti amministrativi, il limite che discrimina fra città e villaggio varia anche molto ampiamente e che su questo limite si sono consumati dibattiti e perfino scontri politici nel corso del tempo; basti leggere sulla versione inglese di Wikipedia la voce “town”: «Towns are generally larger than villages and smaller than cities, though the criteria to distinguish between them vary considerably in different parts of the world»[2]. Quello che però ci può interessare maggiormente, dato che la precedente questione è meno rilevante nel contesto in cui queste pagine si collocano, è il riconoscere che il concetto di città si coniuga con un’idea di maggiore densità di oggetti costruiti e di persone rispetto a un insediamento non urbano, secondo una misura che dunque dipende dalla differenza più che dal numero assoluto, e che è quindi geografica e storica, più che matematica. Questo ci permette di motivare – come anche molti recenti strumenti di Pianificazione fanno (si veda per esempio il Piano di Indirizzo Territoriale della Regione Toscana) – l’individuazione di una rete di città di dimensione anche piccola, ma pur sempre città[3] a fronte di un paragone ovviamente improponibile con realtà di milioni di abitanti che caratterizzano centri urbani di rango superiore, anche rimanendo solo sulla scala nazionale e non andando a scomodare megalopoli di dimensione sconosciuta in Italia. Se l’essere città non è dunque cosa dipendente dalla dimensione, la domanda che però sorge spontanea paragonando la dimensione di – per esempio – Montalcino con Roma, è: quali sono le particolarità che ci permettono di definire entrambe, appunto, città? Credo che la risposta si trovi in due possibili definizioni.
La prima la possiamo riprendere da un notissimo saggio di Melvin Webber in cui il pianificatore statunitense scrive: «The spatial city, with its high-density concentrations of people and buildings and its clustering of activity places, appears, then, as the derivative of the communications patterns of the individuals and groups that inhabit it. They have come here to gain accessibility to others»[4]. Evidentemente il concetto di densità rimane una delle origini del ragionamento di Webber, così come l’idea di clustering, dove cluster si può tradurre correttamente con il termine “grappolo”, che rende perfettamente l’idea di come questo raggrupparsi sia condizione fondamentale per il secondo e più interessante passaggio del testo citato: l’idea di accessibilità. Il concetto di accessibilità possiamo infatti reinterpretarlo in relazione non solo alle persone (appunto vicine a formare un grumo di presenze che garantisce relazioni), ma anche alle cose, o a tutto quanto le persone richiedono per una vita migliore: beni primari e secondari, lavoro, cultura, formazione, servizi sanitari, servizi in genere, ecc. E se mappiamo dunque la distribuzione di tali servizi in relazione alla distribuzione della popolazione (lo stesso vale per le imprese), scopriamo che possiamo chiamare “città” i luoghi in cui questa corrispondenza esiste – con molte conferme che lo studio di uno specifico territorio può darci e talvolta anche qualche sorpresa[5].
La seconda definizione la troviamo in un testo di John Friedman in cui viene indicato come la città sia uno strumento «to reconnect our lives with the lives of others in a ways that are inherently meaningful»[6], uno strumento che, oltre a permettere accessibilità, è nato per mettere in relazione e dar senso proprio (estremizzando: solo) attraverso le relazioni. Questo tipo di lettura ha assunto sempre più importanza nel tempo, ovviamente complessificandosi, e se Italo Calvino già descriveva una città non più fatta di persone e di cose, ma solo di memoria di relazioni (Ersilia nelle Città invisibili[7], oggi possiamo parlare di una «ontologia [che] è il centro della così detta “svolta relazionale” negli studi urbani degli ultimi anni, che immagina le città come un campo di forza combinatorio»[8]. Questa immagine, molto potente nella sua metafora, ci porta a interrogarci sul ruolo che lo spazio fisico ha nel quadro di tali relazioni. Esiste un parallelismo relazionale spazio-società che possiamo definire? Una possibile descrizione ontologica, riprendendo appunto Amin e Thrift, dell’aggregato di oggetti e dei vuoti fra di essi che delimitano gli orizzonti del paesaggio urbano?
Il senso di tale relazione fra spazio geografico e società che in esso si muove e trova il proprio ambiente di vita è stato oggetto di attenzione prima di tutto a partire dai problemi pratici di sopravvivenza, dove tale relazione incideva i propri segni nella natura per ragione pratica[9], ma oggi siamo in un’era geologica – che qualcuno definisce antropocene – in cui le trasformazioni imposte dalla specie umana sull’ambiente naturale sono di portata così pervasiva da poter tranquillamente giustificare l’affermazione che lo stato naturale (non modificato dalla specie umana) non è più apprezzabile. A partire da questa considerazione, dubito si possa individuare un’interpretazione univoca del senso che lo spazio (naturale, ma anche e soprattutto costruito) ha nella costruzione dell’identità sociale, ma è certo condivisibile l’affermazione che individua come «le identità umane e le affezioni sono coprodotte e amplificate dal paesaggio urbano»[10] e come tale paesaggio presenti una capacità di agire: «funzione sia del come, in un campo di forza di interazioni relazionali, gli input ibridi sono organizzati […], sia del carattere della ecologia generale delle interazioni»[11].
Questa duplice capacità di azione o, per meglio dire, la duplice interpretazione della presunta capacità di azione dell’ambiente costruito sull’uomo e, al contrario, dell’uomo sull’ambiente, possiamo utilizzarla per distinguere due atteggiamenti, quasi due retoriche, nei riguardi dello spazio urbano: una che lo legge come rivelatore di attitudini, comportamenti, volizioni e una seconda che lo fa soggetto portatore di diritti.
Due retoriche per lo Spazio pubblico
Richard Sennet, nel suo recente volume Costruire ed abitare, parla lungamente di Jane Jacobs. Fra le altre cose scrive:
Diceva che “la città non era un’opera d’arte” […]. Ma ciò per lei non contava: la gente avrebbe fatto il suo nido, con trasformazioni graduali e piccoli ritocchi alle costruzioni esistenti secondo gli stili di vita. La forma scaturisce dal modo in cui abitano le persone. La sua era una visione del motto “la forma segue la funzione”, in cui la parola “funzione” rappresenta la miriade di attività informali, libere e senza regole rigide che avvengono vis-à-vis.[12]
Se la città – se lo spazio pubblico prima di tutto – sono lo specchio di questi comportamenti, significa evidentemente che proprio tali comportamenti vi si concretizzano incidendo una materia indifferenziata con segni ogni volta differenti. Ovviamente questo avviene in tempi lunghi soprattutto nella nostra tradizione culturale consolidata da secoli di storia, ma anche le strade e le piazze con un’impronta antica e inconfondibile continueranno sempre a essere trasformate dai comportamenti collettivi; magari non tanto nella struttura fisica complessiva, ma nel significato che gli elementi di cui sono composte prenderanno in ogni tempo e per ogni comunità. Come scriveva Gaston Bachelard, «lo spazio abitato trascende lo spazio geometrico», e proprio per questo «è necessario che tutti i valori tremino: un valore che non trema è un valore morto»[13]. Giancarlo Paba, parlando delle lezioni di piano di Lewis Mumford ci ricorda come per il planner statunitense esista «una sintonizzazione sottile del disegno della città ai bisogni più minuti del mondo della vita»[14], dove «il completamento dell’unità organica di abitazione da parte degli abitanti non è un aspetto accessorio delle nuove (e vecchie) forme di abitare, ma un aspetto fondamentale e necessario»[15]. Sempre nello stesso testo cita il rapporto fra Mumford e altri importantissimi personaggi del mondo del planning dei suoi tempi; in particolare, è il ruolo di Benton MacKaye che qui risulta interessante per il nostro ragionamento. Secondo questa lettura, MacKaye
ipotizza che l’energia contenuta nell’ambiente naturale agisca sull’uomo in modo potente non soltanto mediante una modalità di conversione meccanica e biologica, ma anche attraverso l’esercizio di un vero e proprio potere di psychological conversion. […] L’ambiente determina in questo modo la costituzione di un common mind, […] una collettiva sapienza ambientale, un sapere del luogo, un sentimento collettivo del territorio […].[16]
Paba arriva alla conclusione che questo rapporto intimate (altra espressione mumfordiana e prima ancora geddesiana) non può far altro che spiegare come, in una pianificazione che è prima di tutto autogoverno della città di «carattere espansivo e creativo, insurgent, sovversivo»[17], esista una precisa linea di demarcazione di ogni forma di piano e di pianificazione oltre la quale non si può certamente pretendere di regolare i comportamenti.
Questa – sia detto subito – condivisibilissima posizione, non può farci dimenticare che occorre rilevare un atteggiamento contrario che ritiene che proprio attraverso misure di controllo dello spazio sia necessario controllare, in piccola o grande parte, i comportamenti. Se la città è prodotta dai comportamenti collettivi e se i comportamenti collettivi si orientano anche grazie agli spazi urbani pubblici, leggere questi ultimi nei segni di negatività dovrebbe, in quest’ottica, portare al loro controllo per generare contegni conformi a un codice condiviso. Ordine spaziale e ordine sociale si possono dunque sovrapporre secondo un modello di pianificazione che ha un’origine antica, forse risalente financo all’età greca classica dove Hippodamo di Mileto, producendo il primo esempio di zoning funzionale, ci pone un interrogativo critico: «If the spatial plan is functional to social control, planning decisions contribute to the (re)definition of forms of citizenship or, more precisely, the (re)designing of citizenship is, wittingly or unwittingly, the true aim of the plan»[18]. In questo passaggio si annida un rischio, esemplificato da alcuni studiosi con l’espressione dark side of planning, dove il planning diviene strumento del mantenimento di un ordine sociale iniquo[19] e, connaturato a questo, motore di una retorica che fa della sicurezza e del decoro il soggetto di un discorso – solo apparentemente – migliorativo delle condizioni di vita di una comunità insediata. Se lo spazio pubblico, in quest’ottica, è specchio di una comunità e forma una comunità, renderlo decoroso è il primo obiettivo di qualsiasi patto per una buona vita collettiva. Qui troviamo l’origine teorica di tanto dibattito sui regolamenti che cercano di tenere sotto controllo alcuni fenomeni di “mal uso” dello spazio pubblico (secondo la loro linea di pensiero), di mettere sotto tutela comportamenti che una parte sociale e politica vuole controllare per i propri obiettivi (secondo un’opinione contrapposta).
Non è questa la sede per approfondire un tema che per altro richiede competenze sociali e politiche che non sono di chi scrive; certo però posso evidenziare con qualche presunzione di competenza che la città, storicamente, decorosa non sempre lo è stata. Se infatti spesso sentiamo decantare la città medioevale e rinascimentale per la sua straordinaria (indiscussa) bellezza non è da dimenticare che, per esempio, solo gli statuti del XIII secolo cominciano a introdurre regole sugli scarichi, ma che per molto tempo ancora i pitali vengono svuotati in strada e che al più – dove esistono – le latrine scaricano in fossi all’aperto. O, ancora per esempio, che i tiratoi della lana a Firenze, tutti dentro le mura, usavano per la sgrassatura urina che poi non veniva certo smaltita secondo moderni concetti di separazione dei liquidi di scarico.
Rischiando di prendere una deriva un po’ poco elegante potremmo continuare con esempi di scarsa considerazione per lo meno dell’igiene, ma non è questo il punto; gli esempi servono solo per mostrare come la discussione sul decoro è molto attuale, ma i provvedimenti che vanno nel senso della “pulizia” dello spazio non possono certo essere giustificati con origini storiche dell’idea di città come spazio decoroso per la vita collettiva. Si tratta di un concetto attuale che tende, a mio modo di vedere, a sterilizzare un ambiente che sterile non è mai stato. Ecco dunque che si decide, in base a questa retorica di controllo, di multare i mendicanti; recintare i gradini dei sagrati delle chiese per evitare che le persone ci si siedano – anche se erano stati in molti casi costruiti per quello; rendere inaccessibili mediante cancelli logge e porticati; allontanare usi “impropri” richiamando necessità di sicurezza; proibire il consumo di cibo in spazi pubblici; proibire l’uso dell’aria pubblica per stendere i panni, ecc. Non discuto qui se alcune – o tutte – di tali misure abbiano alla base una motivazione valida o meno, ma del fatto che spesso coprono interessi particolari (di mercato in genere) e che finiscono per far sì che lo spazio pubblico si trovi sempre più in balia di un suo uso predeterminato, mentre lo spazio privato sempre più diventi oggetto del desiderio di un mercato immobiliare forte e aggressivo. Così, la città della vita quotidiana è sempre più schiacciata da un complesso di regole che la vuole pre-determinare nei suoi dettagli, anestetizzandola e sterilizzandola. A differenza del passato, in questa contemporaneità – alla quale per altro è difficile trovare una data di inizio – viviamo un ordine socio-economico pervasivo che pare volersi giustificare attraverso un’immagine – che esso stesso produce – di disordine apparente[20]. Abbiamo invertito i fattori: usiamo un’immagine di disordine per giustificare operazioni di sterilizzazione imposte da un ordine sociale, dove la città storica cercava invece di ordinare fisicamente una continua attività molecolare. Riprendendo il titolo di un saggio di Colin Ward, abbiamo decretato la «morte della città a grana fine»[21], fatta di mille spazi di azione liberi e coordinati.
Le due retoriche di cui scrivo hanno evidentemente entrambe alcuni elementi di ragionevolezza e dei punti di criticità e, se la prima li ha in una eccessiva ibris e in un certo determinismo che talvolta pretende di risolvere tutto attraverso misure di planning – dimenticandosi che lo spazio offre possibilità, ma non le determina in maniera oggettiva –, la seconda spesso costituisce una versione tracotante di imposizione di regole precostituite a vantaggio di un gruppo di cittadini – presunti – normali. Se nel primo caso il pianificatore che non individua chiaramente i limiti del suo ruolo rischia di diventare un demiurgo, nel secondo si presta all’imposizione di un modello che dovrebbe essere molto lontano dal suo agire che è – sempre – problema morale se collocato in quel contesto di pluralismo radicale[22] con cui dovrebbe confrontarsi.
Tornando alla storia della città, almeno quella europea, per rivolgersi alla faccia positiva della medaglia delle interpretazioni di cui ho appena trattato e sostanzialmente della prima, ritengo corretto aderire a una considerazione che nel 1998 ci ha fornito il filosofo Ivan Illich. Illich ci propone una riflessione storica e filosofica che confronta lo spirito sociale (e anche religioso) che costituisce il collante di quei cluster urbani di cui scrivevo in precedenza e la loro formalizzazione statutaria e lo fa rivolgendo la sua attenzione al medioevo. Scrive:
la città medievale dell’Europa centrale fu […] una configurazione storica radicalmente nuova: la conjuratio conspirativa, che fece della civiltà urbana europea qualcosa di affatto distinto rispetto agli stili urbani di altre zone. Essa implica una peculiare tensione dinamica tra l’atmosfera della conspiratio e la sua costituzione legale, di tipo contrattuale.[23]
È molto significativo che alla base del vivere civile in questa tradizione storica venga posizionato il respiro condiviso (significato letterale del termine latino conspiratio) e che da questo derivino conseguenze fondamentali: «nella misura in cui viene pensata come avente origine nella conspiratio, la città deve la sua esistenza sociale alla pax, il respiro condiviso in modo egualitario tra tutti»[24].
Jordi Borja, riflettendo su tre delle parole antiche che identificano la città: urbs, civitas e polis ci fa notare che la civitas è «la ciudad como lugar productor de ciudadanía y ámbito de ejercicio de la misma» e contemporaneamente che «la ciudad ha sido históricamente el ámbito de la ciudadanía, es decir el territorio de hombres y mujeres libres e iguales»[25]. Cittadinanza è dunque un concetto che comporta diritti e doveri, proprio nella tensione dinamica tra spirito della città e costituzione legale di cui ci parla Illich. Naturalmente, anche le retoriche di cui trattiamo si articolano su una composizione di diritti e doveri – ma è sui primi che si dividono, anche e soprattutto in un’epoca come l’attuale in cui la mobilità di cui tutti godiamo determina cambiamenti rapidi e sostanziali delle comunità urbane. Il disordine apparente dunque porta alla rivendicazione di una pianificazione securitaria che dovrebbe, nella sua logica, distinguere una cittadinanza formale rispetto a una sostantiva, dove invece la seconda è ciò che migrazioni e movimenti sociali definiscono e che – storicamente, sempre Illich ci fa notare – è la radice della nostra storia urbana. Borja da questo fa discendere alcune conseguenze in una ricognizione dei diritti di cittadinanza fortemente positiva. Ripercorrendo in maniera parziale il suo ragionamento, citerei almeno: il diritto a godere di un luogo che è nucleo di una qualche identità sociale locale e non di un banale spazio “piatto”; il diritto a luoghi pubblici aperti e inclusivi per ogni tipo di comunità e di soggetto singolo; il diritto a costruire delle centralità (riprendendo quanto scritto, a produrre cluster sociali che poi si traducono in spazi centrali o in strategia di centralizzazione degli spazi collettivi); il diritto al rifugio in spazi protettivi se poteri amministrativi svolgono azioni repressive in relazione alla difesa di altri diritti e, connesso a questo, il diritto all’illegalità nel momento in cui questa serve a difendere principi[26].
Dell’eccedenza
Fra i diritti teorizzati da Borja, ne esiste uno che a molti non apparirà scontato e che forse considereranno del tutto utopistico. Borja tratta del diritto alla bellezza.
El lujo del espacio publico y de los equipamientos colectivos no es despilfarro, es justicia. Los programas públicos de vivienda, infraestructuras y servicios deben incorporar la dimensión estética como prueba de calidad urbana y de reconocimiento cívico. [†] La estética del espacio público es ética.[27]
Esiste dunque una dimensione etica nella progettazione e gestione dello spazio? L’urbanista ha questo tipo di compito morale? Mi sentirei di aderire facilmente alla posizione di chi considera che «se trasformazioni e sviluppo del territorio appartengono ad un campo di possibilità, non possono che mettere in gioco delle responsabilità etiche»[28], dove naturalmente occorre poi indagare sulla natura di tali responsabilità, ma dove credo si possa – almeno in una discussione sintetica – aderire all’idea di traguardare un’etica delle relazioni fra i detentori dei diritti di cittadinanza intesi per come Illich e Borja ce li presentano. Giancarlo De Carlo aveva già individuato come centro dell’attività di progettazione della città il compito di dar forma allo spazio fisico «in termini di dialettica tra realtà e aspirazioni»[29] e quindi il ruolo del progettista non come decisore unico, ma come interprete delle molte possibilità di cambiamento e innovazione. Un progettista caratterizzato da «un approccio minoritario e dissidente che vede l’architettura come una diffusa attività sociale, nella quale l’architetto è un propiziatore, o riparatore, più che un dittatore estetico»[30]. Aveva anche individuato il rischio che un atteggiamento manicheo di controllo sociale o di eccesso di determinismo attraverso la pianificazione comportano, e «che i rapporti tra i gruppi sociali e il loro ambiente fisico non si svolgono secondo processi lineari biunivoci» e che pertanto, in questo contesto ideologico, la chiarezza (obbiettivo dell’urbanistica del controllo) «può essere solo imposta»[31]. Ecco dunque che l’ordine (il decoro) non è caratteristica tipica dello spazio urbano se intendiamo la città come l’abbiamo presentata a partire dallo scritto di Illich e se questa serve alle relazioni di prossimità, ai grappoli che ci danno accessibilità a relazioni sociali. «La verità è che nell’ordine c’è la noia frustrante dell’imposizione, mentre nel disordine c’è la fantasia esaltante della partecipazione». Il disordine può ovviamente anche essere elemento di alienazione, ma «il disordine della partecipazione non è un fenomeno destrutturato e casuale»[32], è piuttosto l’occasione per introdurre in una struttura già dinamica elementi di innovazione. Lo spazio pubblico, se non sterilizzato da atteggiamenti securitari, è essenziale in questo contesto: là si trovano elementi di innovazione.
Nella seconda definizione di città citata nel primo paragrafo, Friedman ci ricorda la funzione sociale dello spazio urbano, peraltro già presente nella definizione di Webber. Le nostre vite diventano inherently meaningful in quello spazio, grazie a quello spazio, ma perché questo avvenga vi è una condizione essenziale: «place provides the conditions of possibility for creative social practice»[33]. Place, che qui interpreterei con il senso profondo di luogo e non con quello rapido di localizzazione significa – nel mio discorso, appunto – spazio pubblico, ed è in questo che vanno ricercate possibili forme di creatività, poiché esso è «marked by the unfettered circulation of bodies constitute[s] [†] a field of emergence, constantly producing new rhythms from the many relational possibilities»[34]. Chiaro che la città che emerge dal dialogo fra Illich, De Carlo e Amin è spazio aperto, inclusivo e portatore di diritti ed è uno spazio dove la densità e il movimento dei corpi costruiscono «la consapevolezza degli altri diversi da sé, i contatti gli incontri con loro [che a loro volta] costituiscono una dimensione etica che rende civile lo spazio urbano»[35]. Il diritto alla centralità allora può essere ri-declinato come possibilità di «trovare margini dove inserire eventi innovatori»[36] e attraverso questa azione progettuale trasformare luoghi poco significativi in centralità aperte e inclusive. Così si garantisce anche quel diritto da cui siamo partiti, poiché «when the city operates as an open system — incorporating the principles of porosity of territory, incomplete form, and nonlinear development — it becomes democratic not in the legal sense, but as a tactile experience»[37].
Questi margini dipendono dalle eccedenze: eccedenze di relazioni con l’ambiente rispetto allo stretto necessario per la sopravvivenza materiale; eccedenze di densità che permettono il clustering e quindi, per conseguenza, di incrementare l’accessibilità; eccedenze di interazioni relazionali e funzionali necessarie alla coproduzione dello spazio di vita sociale. La città come nucleo di vita sociale (ma anche come sua concretizzazione fisica) è un effetto del surplus di relazioni parzialmente – ma sostanzialmente – casuali.
Della bellezza dello spazio pubblico
Proporrei adesso di reinterpretare l’idea di bellezza alla quale i diritti di cittadinanza danno accesso secondo la proposta di Borja in precedenza riportata. Bellezza naturalmente è parola molto complessa e il “bello” non è certo definibile in termini semplici. In senso moderno, di questo si occupa l’Estetica, concepita dopo il XVIII secolo, appunto, come dottrina del bello e quindi come teoria che fonda «l’esperienza del bello, della produzione e dei prodotti dell’arte»[38] (vocabolario Treccani on-line). Qui il prodotto dell’arte è il prodotto dell’architettura e dell’urbanistica, lo spazio urbano come risultato di un progetto complessivo e inclusivo, frutto della «fantasia esaltante della partecipazione»[39] e prodotto di relazioni, tornando al principio di questo discorso e a Ersilia. Mi si passi il parallelo fra architettura e poesia – che richiederebbe molta più cautela –, ma riprendendo l’immagine di spazio pubblico segnato dalla libera circolazione dei corpi e dalla loro diversità e alterità, quello spazio – field of emergence – è luogo dove «l’incontro con l’Altro eccita l’immaginario e la conoscenza poetica. Ovviamente da quel momento non c’è più spazio per le gerarchie in vista dei rapporti con l’altro», piuttosto il suo riconoscimento diviene «un obbligo morale (la qual cosa sarebbe di una piatta genericità), ma ne fa una componente estetica, il primo editto di una vera e propria poetica della Relazione»[40]. Ora questa poetica – questa estetica (forse Glissant potrebbe accettare anche questo slittamento di termini) – ha due ragioni di esistere. La prima è che permette di acquisire una dimensione intimate con i luoghi da parte delle nuove comunità che perennemente, nella nostra società sempre più caratterizzata da flussi, li attraversano e dove la nuova centralità «non è più soltanto permanenza, è capacità di variazione» e implica una dinamica a cui concorrono tutte le possibilità relazionali casualmente generate dallo spazio pubblico[41]. La seconda viene spiegata ottimamente da Giovanni Michelucci quando richiama (parlando di Brunelleschi, ma in realtà degli obbiettivi di chi produce architettura urbana in generale) la necessità di costruire spazi di libertà, «espressa con obbiettività ed umiltà tali da facilitare nell’ospite la riscoperta di sé»[42], ovvero di concedere all’uomo «la possibilità di scegliere o creare il proprio spazio nello spazio generale»[43]. Questa estetica dello spazio non si chiude su un suo uso e forma predeterminati, ma apre una sequenza di ipotesi, «dilatando l’immagine oltre i margini del quadro imposto da chi concede: per mostrare che cosa si potrebbe (dovrebbe) avere se invece che entro una condizione di preordinato assoggettamento ci si muovesse secondo un oggettivo confronto di diritti reali»[44]. L’estetica dello spazio è dunque il frutto della possibilità per ognuno di noi di appropriarsi di questo modificandolo nel proprio significato e, se questo diventerà condiviso, anche nella propria forma dentro un processo collettivo, con la lentezza che la città materiale conserva.
Questo percorso di risignificazione e possibile trasformazione che passa per incontri e scontri dentro la struttura materiale della città, determinati dalla sua natura relazionale dove il caso e il caos giocano un ruolo essenziale, ha molto a che vedere con la natura dei processi cognitivi e creativi. L’estetica di cui ci parla Glissant ha proprio a che fare con uno dei tratti tipici dello spazio pubblico derivante dallo scontro fra le retoriche che lo vorrebbero regolare e securizzare e la vita molecolare che lo invade – fra la città del legislatore/regolatore e del flaneur, fra sintassi e caos. Se prevale il primo elemento, la città perde la sua creatività e dunque bellezza; se il secondo acquista la «poetica della Relazione [che] non presuppone alcuna fissità ideologica»[45], ci permette di capire che lo spazio pubblico è sempre uno spazio di gioco.
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Note
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