Giuseppe Caridi | Città viva | Vol III | Futuri urbani
Introduzione
Il contributo intende approfondire la questione del netto aumento delle esperienze che mirano a dare centralità ai processi di auto-organizzazione comunitaria. Una via possibile per riflettere su tale dinamica può essere ricercata nella forte e crescente attenzione riguardo al tema dei beni comuni. L’autore sostiene la tesi che nelle pratiche di Autorganizzazione comunitaria sta il processo di produzione dei beni comuni, nella produzione dei beni comuni sta il principio di rigenerazione della democrazia. Vengono presi in considerazione tre argomenti principali. Il primo esplora la parabola che le pratiche di coinvolgimento degli abitanti nei processi di pianificazione e progettazione hanno assunto negli ultimi venticinque anni: da tentativo di allargare il confine concettuale della rappresentanza a riduzione del senso politico della vita comunitaria alla sola dimensione tecnica. Il secondo evidenzia come siano praticabili anche altre concezioni utili a favorire un rafforzamento della sfera non istituzionale e delle sue dinamiche istituenti. Tale punto di vista dilata il campo della discussione tanto sui processi che nascono spontaneamente dalle interazioni locali, diventando così autorganizzazione, quanto sulle potenzialità dei beni comuni e sul loro ruolo nell’elaborazione di un discorso politico-sociale di ampio respiro che mira a rigenerare la democrazia. Infine, si argomenta riguardo una possibile prospettiva utile per creare condizioni di contesto tali da consentire l’emergere e il funzionamento delle pratiche di auto-organizzazione comunitaria.
La parabola della Partecipazione negli ultimi trenta anni
Possiamo aprire la riflessione da uno dei temi costitutivi del discorso, la partecipazione, tentando un’esplorazione delle piegature che questo concetto ha assunto negli ultimi trenta anni. Nell’ambito disciplinare in cui ci collochiamo, la partecipazione ha a che fare con i rapporti fra le norme (intese in senso lato, quindi piani, programmi, ecc.) e i concetti di istanza e rappresentanza.
Si è ormai consolidata, nella cultura politica contemporanea, la tesi secondo cui i meccanismi di produzione delle norme risultano sempre più indifferenti alla società, in quanto si sviluppano secondo logiche fortemente gerarchiche; ciò rende di fatto la norma sempre più distante dai concreti modi di vivere delle persone[1]. Elemento cruciale di tale dinamica è la tendenza a mantenere i processi d’interazione sociale, dai quali scaturiscono le norme, fortemente legati ai paradigmi di delega tipici della democrazia rappresentativa. Il meccanismo istituzionale della rappresentanza, peraltro, dai primi anni Novanta, inizia a perdere gran parte della sua efficacia (crisi dei partiti politici, astensione dal voto, disaffezione verso la politica, ecc.) come dimostra anche il dibattito che da diversi anni s’incentra sul problema della forma della democrazia e dei suoi mutamenti.[2] Per colmare la sempre crescente distanza fra le norme e gli uomini ed eliminare il paradosso di un “diritto senza società” si è ritenuto necessario lavorare per spostare il confine concettuale della rappresentanza; e, da qui, definire pratiche d’interazione capaci di far emergere le istanze delle società insediate e, soprattutto, di renderle incisive nei processi di decisione.
È in virtù di questo dibattito che, nell’ambito disciplinare dell’urbanistica, si è consolidata la suggestiva e feconda ipotesi di lavoro che tende a considerare il piano urbanistico come un processo democratico, piuttosto che come un semplice procedimento istituzionale connesso a un’attività d’elaborazione tecnico-scientifica. Attraverso questa rivoluzione di carattere epistemologico degli statuti disciplinari, dai primi anni Novanta si è sviluppata l’ennesima revisione del piano, un diverso modo cioè di intenderlo, redigerlo, utilizzarlo; in particolare, ha assunto centralità la specifica interpretazione culturale e politica dell’urbanistica partecipata[3]. Va comunque rilevato che alcune linee di ricerca attente alla dimensione del confronto con gli abitanti hanno, da sempre, attraversato la riflessione disciplinare. Tuttavia, fino agli anni Novanta ogni iniziativa di questo tipo era stata vista esclusivamente come una possibilità alternativa, peculiare ed episodica, rispetto alla pianificazione canonica e ai suoi statuti. Proprio nel momento di massima espansione per l’urbanistica partecipata si configurano, con decisione, scenari tanto contraddittori quanto ambigui. Iniziano a emergere le principali aberrazioni cui, ancora oggi, essa è soggetta[4].
Per comodità espositiva queste criticità possono essere ricondotte a due dimensioni principali, che corrispondono a una diversa visione delle relazioni tra ragioni politiche e argomentazioni tecniche. Da una parte emerge una dimensione scettica della partecipazione come tratto ricorrente della sfera istituita. Essa deriva dalla tipica tendenza auto-conservatrice che domina oggi le istituzioni, e che produce una profonda diffidenza verso ogni cambiamento in grado di mettere in discussione le sue prerogative di autonomia decisionale (e dunque di potere, perché non da oggi potere decisionale e potere sono sinonimi). L’obiettivo principale di questo tipo di partecipazione è, quindi, la legittimazione di scelte politiche preordinate. Tale visione si esplica attraverso una strutturazione del processo partecipativo di tipo rigido e procedurale (top-down). Le modalità di interazione permesse sono sostanzialmente di tipo informativo passivo e sono, comunque, fortemente orientate e controllate; in pratica, non permettono alcuna significativa influenza da parte dei partecipanti sull’intero del processo di costruzione del piano. Va anche rilevato che, in questo tipo di processi partecipativi, i soggetti più coinvolti sono le istituzioni. Pertanto, i soggetti non istituzionali e i singoli individui non hanno una reale capacità d’incidenza. Dall’altra esiste una dimensione rituale della partecipazione. La sua principale caratteristica è la centralità data alle tecniche decisionali. Questo campo di attenzione e sperimentazione si è andato strutturando in conseguenza dell’ampliarsi della domanda istituzionale di partecipazione. E ha prodotto un rapido affinamento e proliferazione delle metodologie d’intervento. I cardini di questa dimensione sono una strutturazione del processo in termini di arena decisionale, che prevede l’uso di molteplici modalità di interazione basate su procedure anche molto raffinate. Quelle più riconoscibili sono di tipo assembleare (forum, gruppi di discussione ecc.) e di interazione mediatica attiva. Questi processi possono consentire il coinvolgimento di un ampio arco di soggetti ma rimangono ad ogni modo stretti nelle spire di un rito tecnico (anche del comunicare) che porta alla strutturazione delle scelte e al raggiungimento delle decisioni attraverso una deformazione dell’interazione sociale che, invece, dovrebbe essere intesa come capacità di costruire contesti di relazione, di tipo politico e progettuale.
Alla base di queste due dimensioni risiede un modo di intendere la partecipazione come mezzo/strumento utile a raggiungere un determinato fine. Ciò riduce il processo partecipativo a una specifica procedura metodologica istituzionalizzata e formalizzata.
Tuttavia, come avremo modo di vedere nel prossimo paragrafo, sono concepibili anche altre interpretazioni: è possibile muoversi verso un rafforzamento della sfera non istituzionale e delle sue dinamiche istituenti. Ciò significa dare centralità ai processi di autorganizzazione che nascono spontaneamente dalle interazioni locali.
Autorganizzazione, beni comuni e democrazia
Sebbene i processi di auto-organizzazione comunitaria abbiano sempre avuto un ruolo nelle dinamiche di trasformazione e costruzione della città va rilevato che, per un lungo periodo, le diverse elaborazioni disciplinari dell’urbanistica non hanno dedicato loro la necessaria attenzione, tenendoli spesso in un ambito che fa da sfondo all’indagine o, comunque, poco esplorato[5].
Una lettura tesa, invece, ad approfondire tali processi nella loro originalità complessiva mostra che l’autorganizzazione comunitaria rimanda ad alcune questioni, ritenute centrali non solo per queste note, come i) incrementare la consapevolezza dei rapporti tra abitanti e territorio (valori alternativi, nuovi diritti, altre relazioni significanti ecc.); ii) portare a un ripensamento del carattere stesso della sfera istituzionale e delle sue modalità di azione (ciò anche riguardo all’attuale natura escludente e poco efficiente dell’amministrazione pubblica, nonché alle dinamiche di arretramento del welfare state); iii) stabilire nuovi rapporti fattivi e paritari tra società istituita e società istituente[6]; iv) e, infine, essa rappresenta il punto di appoggio e lo strumento di avvio per la produzione e riproduzione dei beni comuni.
Nello specifico, l’autorganizzazione nei sistemi sociali consiste essenzialmente nella formalizzazione, da parte di configurazioni variabili di soggetti territoriali, di un nuovo insieme di norme sociali/regole organizzative più adatte alle condizioni della comunità rispetto a quelle precedenti[7]. In questo senso, «[…] l’autorganizzazione è un fatto strutturale. Non è solo un’anomalia, un fattore di protesta, ma una forma attraverso cui la società si riorganizza»[8]. Ciò si traduce in individui singoli e movimenti collettivi che si riappropriano di parti del contesto urbano e le trasformano (a prescindere dall’appetibilità economico finanziaria), in tempi brevi (superando la lentezza legata all’approvazione di piani e progetti o alle opposizioni politiche e alle proteste locali) e con interventi minimi (in termini sia di contenimento dei costi sia di impatto ambientale), producendo importanti modiche strutturali al sistema che regola le nostre modalità di vita associata. E la città torna ad acquisire un ruolo centrale poiché fattore di produzione di queste modalità[9].
Senza soffermarmi sulla lettura critica delle diverse recenti esperienze di autorganizzazione comunitaria, mi limito a evidenziare che la sperimentazione di forme concrete di gestione diffusa e controllo di porzioni diverse del contesto urbano da parte delle comunità di riferimento è una questione che mette in relazione aspetti di valore e di metodo molto diversi fra loro. Così come illustrano, ad esempio, le 124 esperienze progettuali che costituiscono l’installazione Spontaneous Interventions: Design Actions for the Common Good, realizzata presso il padiglione degli Stati Uniti, nell’ambito della XIII Mostra Internazionale di Architettura – la Biennale di Venezia[10].
Nondimeno, tale attenzione indica che l’autorganizzazione comunitaria tende ad assumere riscontro anche nella narrazione prevalente del circuito più cool dell’architettura e dell’arte, quello che per sua natura è assai attento al mercato e alle sue specifiche logiche.
Per il proseguimento di queste note proviamo a concentrare l’attenzione su come tali forme pongano, innanzitutto, la questione della forte correlazione con il tema dei beni comuni. È, in questo senso, la capacità delle pratiche di autorganizzazione comunitaria di generare i beni comuni che deve essere messa al centro. Come sappiamo la produzione e riproduzione dei beni comuni non ha tanto a che vedere con un loro riconoscimento formale (che risulta ad ogni modo utile, ma solo in un secondo momento) quanto piuttosto con un riconoscimento sostanziale, che è legato al loro modo d’uso da parte della comunità di riferimento. «Piazza Sintagma ad Atene, piazza Tahrir al Cairo e plaça de Catalunya a Barcellona erano semplici spazi pubblici: sono diventate spazi fruibili in comune quando le persone le hanno occupate per esprimere le proprie visioni politiche e avanzare le proprie richieste»[11]. Nello specifico, quindi, è l’attribuzione di quadri di senso politico-sociali, che si manifesta attraverso le pratiche di autorganizzazione comunitaria che genera, anche se non necessariamente, beni comuni.
I beni comuni, la cui prospettiva di ricerca secondo alcuni oggi rischia di essere abusata e mistificata[12], hanno assunto sempre maggiore centralità, travalicando i confini dei singoli ambiti disciplinari. È utile evidenziare come, in campo urbanistico, l’istanza dei beni comuni o, meglio, la prospettiva di ricerca che ha a che fare con alcune questioni strutturali come la loro proprietà, controllo e uso, dovrebbe diventare una linea di revisione concettuale delle modalità di gestione delle dinamiche urbane e territoriali; in altri termini il corpus su cui reimpostarne il quadro concettuale di riferimento[13]. Ma per tendere a ciò credo che occorra partire dalla consapevolezza che i beni comuni non devono essere considerati, in senso stretto, come una particolare categoria all’interno del più ampio campo dei beni economici, ma piuttosto come l’esito della dinamica perenne fra la società insediata e alcuni aspetti del mondo che la circonda (materiali, immateriali e digitali) che essa riconosce, tutela e gestisce, sulla base di precise regole o istituzioni collettive, in quanto li ritiene essenziali per portare avanti un proprio progetto di sviluppo (che può essere dichiarato o, più semplicemente, implicito). Solo in questo quadro essi, nonostante la loro eterea immanenza, rappresentano una realtà pienamente operante, con la quale pare difficile non confrontarsi.
Tuttavia, il discorso non si esaurisce qui. Infatti, i contesti d’interazione progettuale che mettono al centro l’autorganizzazione comunitaria producono, oltre che beni comuni, anche valori alternativi e nuovi diritti che mettono in discussione le forme tradizionali dei processi decisionali. Consideriamo, ad esempio, il ruolo delle occupazioni come resistenza alla città neoliberista.[14] In questo senso, la produzione e riproduzione dei beni comuni implica, inevitabilmente, anche un tentativo di rigenerazione della democrazia. Giacché i beni comuni si pongono come alimento e condizione della democrazia e la loro produzione/riproduzione è un effetto, per quanto incerto e non del tutto programmabile, dell’autorganizzazione comunitaria, sembra opportuno allora riflettere ricercando la prospettiva più efficace per l’emergere e il consolidarsi di tali processi.
Per un nuovo paradigma del corpo: materializzarsi/significare
Per concludere credo sia opportuno soffermarci su due considerazioni: i) che sia necessario dare sempre maggiore centralità all’auto-organizzazione comunitaria. Senza, tuttavia, rinunciare ad alcuni suoi aspetti che, come abbiamo visto, sono geneticamente estranei al mainstream disciplinare; ii) che per tendere a ciò sia essenziale prendere in considerazione un nuovo paradigma del corpo[15], utile a riformulare la connessione corpo/spazio. Tale binomio definisce una relazione molto antica[16]. E si rende particolarmente evidente negli ultimi decenni, quando, per un fenomeno storico senza precedenti, la città piuttosto che promuovere lo scambio tra le persone, l’interazione, la conoscenza dell’altro sembra essere diventata una potente macchina della deprivazione sensoriale e dei diritti (cd. «corpo passivo»[17]). Ma, improvvisamente, le cose sembrano cambiare: dall’ondata di proteste che hanno attraversato i regimi arabi nel 2011, passando a quelle contro le politiche di austerità in Europa o contro le discriminazioni e le violenze nei confronti dei neri negli Stati Uniti, per giungere a quelle del 2019 in Cile. Assistiamo a immagini di corpi che manifestano occupando lo spazio pubblico e che contano/significano, non tanto per il tenore delle singole rivendicazioni, quanto per l’atto stesso del materializzarsi[18]. Corpi che contano/significano in quanto, letteralmente, fanno corpo. È questa l’alleanza cui fa riferimento Butler[19], ossia l’intersezione di tre processi che, per molte ragioni simbiotiche, si alimentano a vicenda legati da tutto un fascio intermedio di relazioni: la rivincita della carne o, meglio, il situarsi del corpo al centro materiale e simbolico dell’azione politica, la conseguente riappropriazione dello spazio pubblico a opera dei corpi alleati e, infine, il riconoscimento del Conflitto come risorsa positiva. Ovverosia come processo che vale per il normale funzionamento dell’interazione sociale e che, in un certo senso, può anche favorirla. Come ha recentemente rilevato Bianchetti, il tema è centrale anche per il futuro dello stesso progetto urbanistico che, impigliato nelle maglie di un nuovo funzionalismo, «non riesce a trattare il corpo come canale di transito, operatore di relazioni complesse con lo spazio»[20]. E, traslitterando in maniera molto efficace i termini del discorso fatto sul genere dalla Butler[21] ad alcune categorie di spazi, evidenzia come «più il corpo interagisce con lo spazio, tanto più lo comprende. È l’intrico delle relazioni tra corpo e spazio che rende lo spazio conoscibile e trasformabile»[22].
Con riferimento al tema specifico dei beni comuni, tali considerazioni ne implicano una terza: iii) che sia necessario puntualizzare e circostanziare lo stato dell’arte relativo a questa prospettiva di ricerca. Per rimanere nel campo di osservazione dell’urbanistica, mi limito a porre l’accento su tre fuochi principali d’attenzione con riferimento ai quali questo obiettivo generale può essere articolato: i) identificare il contributo che lo specifico sapere disciplinare dell’urbanistica può dare alla prospettiva di ricerca dei beni comuni (tenendo presente che le posizioni differenti, anche contraddittorie, arricchiscono la comunità scientifica); ii) approfondire, con riguardo ai diversi contesti locali, i casi esemplari di governo dei beni comuni e i processi che vi insistono (attori, ruoli, poteri, interessi, scelte ecc.); iii) e, infine, evidenziare come sia possibile ricondurre e comporre le singole esperienze di governo dei beni comuni in una, più generale, attività di pianificazione (produzione di piani, definizione di politiche ecc.).
Note
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P. Barcellona, Diritto senza società. Dal disincanto all’indifferenza, Dedalo, Bari 2003. ↑
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G. Moini, Teoria critica della partecipazione. Un approccio sociologico, Franco Angeli, Milano 2012; M. Morisi, C. Perrone, Giochi di potere. Partecipazione, piani e politiche territoriali, Utet, Torino 2013. ↑
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J. Butler, Corpi che contano, Cit. ↑
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C. Bianchetti, Op. cit. ↑