Abitare la precarietà. Esperimenti curatoriali in contesti urbani che mutano

CampoBase | Città viva | Vol III | Futuri urbani


Introduzione

Il displacement, in italiano dislocamento, si riferisce in linea generale a uno spostamento da un punto all'altro dello spazio. Esso rimanda a un sentimento di estraniazione e spaesamento dettato da vari fattori – economici, politici e sociali – che definiscono il nostro modo di stare al mondo, da un punto di vista non solo geografico, ma anche lavorativo, esistenziale e di genere.

Lo studioso Thomas Nail individua nel movimento e nella mobilità, nei flussi di cose e di individui gli elementi caratterizzanti la nuova essenza della nostra epoca: «non è soltanto un nuovo modo di pensare il mondo, ma è la descrizione stessa della vita del XXI secolo, fondata sulle nostre esperienze condivise del reale in cui sempre più aumentano la mobilità, il dislocamento e l'instabilità»[1]. Il senso di spaesamento che ne deriva è una percezione comune nell'esperienza quotidiana e lavorativa, particolarmente in ambito creativo-culturale, vero campo di test per la transizione produttiva post-fordista. La precarizzazione del lavoro è, difatti, una delle conseguenze più incisive del trionfo neoliberale che ha ripercussioni anche sull'esistenza stessa. Tale precarietà, investendo la sfera dei rapporti sociali, induce a sempre più aspre forme di competizione fra i lavoratori[2] – specialmente i lavoratori cognitivi – che prendono il posto di atti di solidarietà, come nota il filosofo Franco «Bifo» Berardi[3].

Quella del displacement è stata sin da subito l'atmosfera emotiva sperimentata dal gruppo che ha costituito CampoBase. Dislocate in città diverse, le persone che compongono il collettivo hanno deciso di istituire nel febbraio del 2019 un luogo fisico, lo spazio di Via Reggio 14 a Torino, attorno al quale gravitare su orbite variabili.

La scelta di darsi uno spazio e un tempo, metaforicamente e letteralmente, ha rappresentato per CampoBase una strategia per affrontare il fenomeno; l'attivazione di una dimensione collettiva dei processi – speculativi, progettuali, decisionali, operativi – ha rappresentato un primo livello da cui far scaturire una pratica curatoriale in formazione.

Il nostro contributo ripercorre alcune tappe in cui CampoBase ha provato a indagare la questione del displacement attraverso la propria pratica curatoriale. Partendo dal radicamento nella città di Torino, dove il collettivo si è formato nel 2018, e dalle esperienze vissute in quel contesto specifico, il testo prende in esame anche le sperimentazioni legate a questo tema in altre geografie, in particolare quelle avvenute nel 2020 in Spagna, a Barcellona. L'obiettivo è di mettere a fuoco i quesiti che hanno animato la nostra ricerca e le metodologie che abbiamo adottato, cercando di far affiorare le criticità e le potenzialità del nostro approccio, anche in luce ai profondi mutamenti dettati dall'insorgere della pandemia.

Come orientarci in un contesto in continuo cambiamento? In che modo vedere la questione del displacement come un'opportunità di azione e non un fattore limitante?

Nel 2019 CampoBase iniziava a ragionare su queste domande, senza neanche immaginare quanto effettivamente il nostro mondo sarebbe cambiato.

CampoBase e la città di Torino

Uno spazio “calmo”

Le fondamenta del centro di Torino poggiano sul vuoto: sotto le piazze, le vie ciottolate, sotto l'intrico delle rotaie del tram si apre un sistema di gallerie e spazi sotterranei adibiti a parcheggi, costruiti nei primi anni Duemila in previsione delle Olimpiadi invernali del 2006. Tra le auto in sosta è possibile scorgere i resti di un magazzino romano, di ghiacciaie, di antiche cloache. Accanto alle uscite di sicurezza sono disegnati a terra dei rettangoli verdi, delimitati da una striscia bianca: sul muro è apposta la scritta “Spazio calmo”.

Da definizione del Codice di Prevenzione Incendi, lo spazio calmo è un «luogo sicuro temporaneo ove gli occupanti possono attendere e ricevere assistenza per completare l'esodo verso luogo sicuro»[4]. Un posto in cui radunarsi mentre è scoppiato l'incendio. È abitando questa metafora che – dislocate in una città che era estranea alla maggior parte di noi, e all'inizio di Campo, il Corso per curatori della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, un percorso formativo che arrivava a occupare in modo inedito le nostre vite – abbiamo sentito anche noi la necessità di un luogo sicuro dove sostare per un periodo definito. Uno spazio che potesse essere occupato da noi ma anche dalle persone che sentivano la necessità di riunirsi in quello che abbiamo definito un punto intermedio tra un opening e un bar. In altre parole: un luogo che creasse un'occasione di scambio e incontro informale e insieme approfondito. La collocazione di CampoBase presso un indirizzo fisico specifico (Via Reggio 14, Torino) aveva già nelle sue premesse l'obiettivo di temporalità: in un anno avremmo innescato il processo di creazione di uno spazio autofinanziato dedicato ad attività artistiche, utilizzando i nostri locali per sperimentare format, creare una comunità, mettere alla prova ciò che stavamo imparando in un'esperienza di autoformazione inclusiva e aperta a chi avrebbe voluto collaborare con noi. In Via Reggio 14 si sono alternati momenti discorsivi a momenti espositivi, caratterizzati da una volontà collaborativa, di co-creazione e condivisione. Nella programmazione dello spazio – composta da progetti diversi tra loro (residenze, mostre, workshop, talk, screening, sessioni critiche) – abbiamo individuato tre tipologie di eventi, concepiti come strumenti di per attivare momenti collettivi di incontro e di dialogo, che abbiamo portato avanti per tutto l'anno di attività a Torino: Meet&Focus, Meet&Crit, Meet&Screen.

Questo anno, culminato in House of Displacement – Torino, è stato un laboratorio aperto e partecipato per definire una pratica: un momento di ricerca pubblica, l'applicazione della metodologia di apprendimento del learning by doing, una palestra di lavoro espansa rispetto al nostro percorso di formazione istituzionale all'interno della Fondazione Sandretto.

House of Displacement, festival di quattro giorni realizzato a ottobre del 2019 e curato da CampoBase, ha condensato l'anno di sperimentazioni presso lo spazio torinese tramite il coinvolgimento di artisti, curatori, ricercatori[5]. L'obiettivo era quello di creare una comunità temporanea di learners (di cui facevamo parte tutte, non solo il pubblico, ma anche noi e gli ospiti invitati) che, spostandosi in luoghi diversi della città, potessero sperimentare la condizione di displacement in maniera condivisa[6]. Piuttosto che cercare soluzioni immediate o progettare un possibile equilibrio, il festival è stato concepito come un modo per concentrarsi sulla diversità di tattiche che scaturiscono dalla cooperazione di individui in una comunità.

Il metodo del “road to”

Le giornate del festival sono state precedute da quello che abbiamo definito Road To, ossia un calendario di eventi (screening, talk e sessioni di storytelling), pensati come occasioni per approcciare il tema del displacement insieme al pubblico e dare il via ai vari filoni di ricerca. Le attività del Road To hanno funzionato, dunque, tanto come atti preparatori, quanto come momenti imprescindibili della creazione di una comunità temporanea, di cui CampoBase stessa entrava a far parte, per approdare insieme ai giorni di ricerca e sperimentazione del festival.

Lo strumento del Road To ci ha inoltre permesso di svincolare House of Displacement da alcune delle consuete logiche che sottostanno agli eventi e manifestazioni di natura temporanea. Non è possibile, infatti, discutere l'impatto economico generato dai festival (artistici o musicali) senza considerare parallelamente gli esiti più o meno consapevoli che gli stessi si portano dietro: pensiamo a processi di turistificazione e mercificazione delle città, o di sfruttamento del capitale culturale esistente e preesistente al momento dell'evento. A partire dalla discussione di questi temi, abbiamo pensato il Road To come uno strumento che ci permettesse di agire in un orizzonte temporale differente e duraturo, prediligendo l' al mostrare[7]. L'idea è stata quella di sfuggire alla calendarizzazione intensiva della proposta culturale cittadina, caratterizzata da grandi picchi di attenzione e concentrazione alternati a momenti di vuoto e assenza, proponendo piuttosto un percorso dilatato che consentisse vari livelli di engagement da parte del pubblico.

Questo lavoro sulla temporalità dell'evento è confluito direttamente in House Of Displacement, in più di un'occasione, a partire dall'evento inaugurale del festival con il Do Nothing Club di Alessio Mazzaro e Fiona Winning. I due artisti invitavano il pubblico a entrare in uno spazio protetto e transitorio – la sede di Via Reggio 14 – dove “fare niente”, dove fermarsi e restare inattivi per tutto il tempo desiderato, dove provare a creare una soluzione collettiva contro l'iperproduttività. L'atmosfera emotiva che usualmente caratterizza il momento dell'opening – e cioè quella di esuberanza transitoria e partecipazione adrenalinica – veniva in questo caso ribaltata e riproposta sotto forma di invito a entrare in uno spazio calmo e a ritornarci per tutta la durata del festival.

Si poneva invece per certi versi agli antipodi l'intervento di Lucia Cristiani, in particolare il secondo atto di How far should I go to explode?, in cui l'automobile dell'artista veniva fatta esplodere come atto conclusivo delle esperienze e dei vissuti di cui si faceva portatrice.

L'estremizzazione dell'aspetto sensazionalistico dell'evento è stato solo il punto di arrivo, lo sfogo di una saturazione, un modo per ritrovare spazio e ripartire. Prima di questo, con un approccio estremamente informale, amicale e comunitario, avevamo chiesto alle persone di mettere a disposizione la propria macchina e di offrire un passaggio a chi ne avesse bisogno per raggiungere la destinazione del campo volo, cioè il luogo dell'esplosione, nonché un altro spazio di riunione per questa stramba e temporanea comunità.

Questi atti preparatori sono stati, dunque, un modo per iniziare ad abitare insieme il tema del displacement. Se da una parte il pubblico passava, così, attraverso una sorta di warm up prima del festival, CampoBase ha avuto la possibilità di situarsi nelle dinamiche del luogo e delle sue sfere di conflitto: Torino prima, che ha ospitato il collettivo per un anno, e Barcellona poi, una città nuova di cui capire e ricollocare le differenti sfumature della condizione del displacement.

Il festival House of Displacement

House of Displacement è stato una sorta di punto di arrivo di tutto il percorso fatto nella città di Torino, nonché un laboratorio a cielo aperto di metodologie che sarebbero poi confluite nell'evoluzione dei mesi successivi in piattaforma itinerante.

Dopo aver sperimentato la città in qualità di ospiti e aver tessuto delle reti relazionali insediandoci primariamente nel tessuto urbano, abbiamo provato a lavorare in risposta a questo insediamento.

Abbiamo immaginato il festival come un tentativo di esplorare nuovi modi di abitare il displacement, invitando il pubblico a vivere e sperimentare questa condizione in diversi luoghi della città di Torino, nella convinzione che ogni spostamento produca sempre un effetto di conoscenza.

A partire da un approccio non gerarchico tra processo di ricerca teorica e pratica artistica, il festival si è costituito come una successione di interventi performativi, teorici e artistici, che realizzavano una serie di micro-esperienze collettive. L'esigenza che volevamo soddisfare era proprio quella di collocare l'azione in un contesto più ampio, di farla risuonare con il circostante, interagendovi attraverso la dislocazione geografica, temporale, ma anche pratico-linguistica dei processi. Attraverso le quattro giornate, il progetto intendeva costruire una piattaforma ampia e accogliente – da cui la dimensione di house – dove attivare, ricercare e sperimentare discorsivamente caratteristiche, limiti e potenzialità della condizione di displacement. Se CampoBase era stato il nostro “spazio calmo” – un luogo dove fare e costruire collettivamente – House of Displacement è stato un modo per espanderlo oltre le pareti di Via Reggio 14.

La decisione di confrontarci con il paradosso di una House of Displacement è entrata subito in collisione con la contingenza di dover costruire questa casa in una città specifica, Torino, con una propria storia urbana, sociale ed economica. Se l'assunto da cui partivamo che è possibile edificare una House of Displacement in qualsiasi luogo, l'esperienza diretta con la città ci ha portato ad agire in luoghi che – sottoposti a processi di rigenerazione urbana, di gentrificazione, di oscillazione negli assetti abitativi ed economici – avevano già cambiato destinazione d'uso, o che erano nel pieno di dinamiche di riconfigurazione e riscrittura dello spazio. Il festival si è svolto infatti in un'area che copre le zone di Aurora, Borgo Rossini, Vanchiglia e Porta Palazzo, occupando temporaneamente spazi impegnati da tempo in una ricostruzione della propria identità rispetto al territorio circostante: un quartiere residenziale alle prese con le esigenze abitative degli studenti fuori sede, un tram che si è fermato anni fa e che da allora ospita artisti, un locale riabitato dopo anni di abbandono.

Tra questi luoghi CampoBase si è posto come connettore, proponendo lo spazio di Via Reggio 14 come il punto di raccolta dove incontrarsi per partecipare alle attività. Nel generare una serie di rapporti fra artisti, luoghi e pubblico, è stato importante pensare alla pratica curatoriale come ad un processo che prevede sempre una situazione di ospitalità. Il coinvolgimento di artisti, opere d'arte, spettatori e istituzioni ha il potere di riunire temporaneamente in un luogo oggetti e persone. Quello che la curatela può fare allora – nell'offrire supporto fisico e materiale durante occasioni di incontro e scambio – è facilitare la creazione di relazioni e di uno spazio condiviso, definito da impegni, regole comuni e atti di . Particolarmente rilevante in questo senso è stato riflettere sulla linea sottile che si interpone fra chi ospita e chi viene ospitato: spesso i ruoli si ribaltano, perché la relazione tra di essi è dinamica. Tale ambivalenza e complessità di fondo anima la condizione ospitale del mostrare e del presentare al pubblico. In questo processo di ibridazione dei ruoli, il pubblico di House of Displacement è stato invitato a partecipare in maniera attiva, per configurarsi a tutti gli effetti come co-autore della situazione creata. Il tentativo è stato quello di generare l'esperienza collettiva non tanto in quanto esito dell'incontro organizzato dalle persone che curano l'evento, bensì come il risultato di un processo d'interazione tra più attori.

Il confronto e lo scambio pubblico sono, infatti, alla base dell'approccio discorsivo utilizzato da CampoBase per istituire una soggettività collettiva, intesa come «il processo materiale attraverso il quale viene generata una particolare forma di coscienza nell'arte e nel pensiero, una forma di intimità che è temporaneamente ospitata dall'opera, dal corpo o dallo spazio che la genera»[8]. Tale processo di costruzione di significati condivisi si fonda sulla performatività di uno specifico fare che si articola nella sua dimensione di produrre e provocare realtà, di trasformarla attraverso l'uso della parola e di altre espressioni culturali. Il contesto artistico, pertanto, non si identifica all'interno di uno , ma è spazio pubblico stesso, che viene sancito dalla presenza di una comunità temporanea e di spazi di mediazione. Il lavoro curatoriale è concepito da CampoBase come un “campo dinamico”, effimero, vivifico e trasformativo, fondato sulla creazione di una realtà temporanea che permette alle opere d'arte di essere vissute non come entità autonome, ma all'interno del proprio statuto, della propria vita e in relazione con gli altri, così come descritto dal drammaturgo e curatore Florian Malzacher[9]. Abitare il displacement significa, allora, creare le condizioni materiali affinché ciò sia possibile all'interno della cornice del festival che, nei quattro giorni di programmazione, mira a far scaturire un'esperienza per tutti i suoi partecipanti. Producendo e articolando insieme nuovi significati rispetto al tema del displacement, CampoBase auspica un cambio di posizione, una consapevolezza diversa in relazione a questa condizione contemporanea che non si limiti a osservare criticamente le sue problematicità, ma a progettare insieme nuove opportunità di azione.

Campobase come piattaforma itinerante: il caso Barcellona

House of Displacement Barcelona è stato un festival di sei giorni realizzato nella capitale catalana e online nel settembre del 2020, nonché primo progetto che abbiamo curato come piattaforma itinerante, grazie alla vincita del bando Encura#4 indetto da Hangar, spazio per residenze artistiche di Barcellona.

Quello che ci siamo proposti di fare a Barcellona è stato una sorta di riadattamento del festival House of Displacement proposto a Torino, una seconda edizione intesa come opportunità per continuare a indagare il tema in uno scenario urbano diverso. La città di Barcellona ci sembrava, inoltre, un contesto interessante dove far confluire questa ricerca, essendo un esempio celebre dei profondi mutamenti realizzati in ambito urbanistico con il processo di modernizzazione delle città europee nell'Ottocento. Basti pensare al Piano Cerdà del 1859, elaborato dall'omonimo urbanista che ha modellato l'odierna configurazione con l'impianto a scacchiera e a griglia aperta egualitaria che contraddistingue il capoluogo catalano. Ma non solo: volevamo anche analizzare le specificità della transizione verso la categoria di smart city a cui è andata incontro la città negli ultimi anni, fenomeno del tutto in linea con le tendenze globali.

Fin dall'inizio, cioè dal momento in cui abbiamo deciso di applicare all'open call, avevamo stabilito, sia per esigenze di bando che per necessità personali, che solo una delle componenti del collettivo avrebbe lavorato in loco per lo sviluppo del progetto. La scelta è ricaduta su Irene Angenica, che in quel momento aveva appena concluso un'esperienza di lavoro presso un'istituzione artistica italiana e quindi aveva modo di trasferirsi per alcuni mesi a Barcellona. Nella scelta comune ha avuto peso anche il fatto che Irene avesse svolto, durante il proprio percorso personale, esperienze di studio e di formazione lavorativa nella città catalana, dove era riuscita a creare dei legami, perfezionando l'uso della lingua spagnola e ottenendo alcune basi di catalano.

Per mantenere una processualità collettiva, avevamo deciso che ognuna di noi sarebbe andata a Barcellona in diversi momenti, in maniera tale da vivere, seppur parzialmente, l'esperienza in diretto contatto con lo staff di Hangar, gli artisti e alcuni professionisti della scena culturale della città. La nostra attività di ricerca è iniziata con queste premesse a gennaio 2020.

Anche per questa edizione, durante la residenza abbiamo proposto il Road To, inteso come una serie di eventi volti a creare una comunità temporanea di partecipanti che arrivasse sino alla realizzazione del festival. Abbiamo quindi deciso di organizzare alcuni atti preliminari, concepiti come occasioni pubbliche per aprire la nostra ricerca e co-creare conoscenza con il pubblico sul tema del displacement in generale e su alcune sue specificità dettate dal luogo e dall'esperienza dei partecipanti. Questi sono stati momenti molto preziosi per noi per conoscere meglio le dinamiche inerenti alla città di Barcellona e per capire aspetti e sfumature specifiche della condizione di displacement legate a quel contesto geografico. Come primo passo nella ricerca per il festival, abbiamo organizzato nel mese di gennaio presso Hangar l'evento How to fall in love with a place?, una sessione di storytelling aperta a chiunque volesse raccontare la propria storia d'amore verso un luogo.

A febbraio, invece, abbiamo realizzato Visions of Displacement una sessione di video screening presso gli spazi di Hangar. I video degli artisti selezionati costruivano una storia a più voci, indagando il tema del displacement da diverse prospettive[10].

L'evento ha avuto luogo un paio di settimane prima della dichiarazione di pandemia globale. Durante quel periodo, Irene è stata costretta a tornare in Italia (la residenza si sarebbe dovuta concludere a fine marzo, dopo la realizzazione del festival). Abbiamo continuato a lavorare al progetto online durante il primo lockdown, un momento in cui ogni paese stava facendo i conti con la crisi pandemica, adottando misure anche molto diverse per fronteggiarla. Se a marzo 2020 l'Italia era il paese più colpito in Europa, nell'estate dello stesso anno i numeri dei contagi erano radicalmente diminuiti, mentre in Spagna si assisteva già alla “seconda ondata” della pandemia.

Considerando queste difficoltà, ci siamo trovate costrette a decidere di non prendere parte fisicamente alla realizzazione dell'iniziativa, riprogrammata da Hangar per fine settembre 2020.

Il festival si è tenuto, nonostante la nostra assenza in loco, nel quartiere di Poblenou, e ha ospitato gli interventi artistici di Lucia Egaña Rojas, Sofia Montenegro e Anna Irina Russel, e il workshop di tre giorni condotto dal duo La Mas Bella, che ha avuto luogo in tre luoghi diversi (Hangar, Barcellona; Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia; Planta, Alta Madrid) collegati tra loro attraverso piattaforme online.

CampoBase ha seguito il processo da remoto in stretta connessione con Antonio Gagliano – al tempo membro dell'equipe di Hangar – il cui coordinamento sul luogo è stato fondamentale per la realizzazione di tutti gli interventi artistici che si sono svolti a Barcellona. Tra questi, la proposta di Lucía Egaña Rojas (Münster, Cile, 1979) rifletteva sul fenomeno delle animitas.

Le animitas sono installazioni permanenti in spazi pubblici il cui scopo è costituire un luogo per le anime di persone morte inaspettatamente fuori da una casa o da un ospedale. In sostanza esse creano dei luoghi spontanei dove la popolazione locale è responsabile della cura dei defunti per onorare la loro memoria in una sorta di cimitero individuale e collettivo allo stesso tempo. Durante il festival abbiamo realizzato un'animita che abbiamo posizionato sulla costa di Barcellona per “ospitare” i morti che affollano il Mar Mediterraneo, in conseguenza delle politiche migratorie europee.

A pochi chilometri dall'animita, Sofía Montenegro (Madrid, 1988) indagava con approccio performativo un luogo nato nel pieno del processo di gentrificazione del quartiere di Poblenou: il parco Central di Poblenou, progettato dall'architetto Jean Nouvel nel 2008. I visitatori, a cui era stata fornita una mappa del parco e una traccia audio da ascoltare attraverso i propri dispositivi mobili, erano invitati a muoversi liberamente nel parco lasciandosi guidare da suoni provenienti da diverse temporalità.

Infine, Anna Irina Russell (Barcellona, 1993) rifletteva sulla modernizzazione del quartiere di Poblenou e sulle relative esigenze di sorveglianza. Dal tetto del Centre Cívic Can Felipa – un edificio simbolo di questo processo di trasformazione – alcuni performer dirigevano un fascio di luce riflessa sui passanti in strada, incarnando così assurdi dispositivi di controllo.

L'evento più laboratoriale dell'intero festival, e cioè il Taller de Ediciones Raras y Variopintas (Workshop di Edizioni Rare e Variate) ideato da La Más Bella (Madrid, 1993), è stato l'unico evento che siamo riuscite a coordinare e dirigere di persona, grazie alla scelta di ampliarne la geografia. Il workshop, che avrebbe dovuto inizialmente svolgersi a Barcellona, presso Hangar, è stato dislocato in tre luoghi diversi (Hangar, Barcellona; Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia e Planta Alta, Madrid) collegati tra loro attraverso piattaforme online.

La Màs Bella è un progetto di riflessione, azione e sperimentazione nel mondo dell'editoria d'arte contemporanea condotto da Pepe Murciego (Madrid, 1967) e Diego Ortiz (Madrid, 1968). Ogni edizione tratta un tema diverso e coinvolge diverse personalità nella sua creazione, così come autori di una rivista, le personalità coinvolte lasciano un loro contributo e collettivamente si viene a creare una nuova edizione.

Il format ospitato da House of Displacement Barcelona prevedeva la creazione di una nuova edizione della rivista “La Más Bella” attraverso un laboratorio collettivo che doveva inizialmente funzionare come da prologo alle attività del festival. Per questa edizione dislocata, gli output sono stati tre numeri speciali, che rispondendo allo stesso format hanno coinvolto gruppi diversi di partecipanti. In questo modo abbiamo tentato di unire i diversi luoghi del festival e di vivere il displacement in senso collettivo anche nell'immobilità pandemica.

Le difficoltà di questa edizione del festival, d'altra parte, sono state innegabili e con esse sono sorte diverse problematiche. Come si può parlare di e a un territorio senza viverlo? Come si può restituire un processo di dialogo e ascolto di una realtà locale senza essere in loco? Tutti interrogativi che ci siamo posti e continuiamo a porci, perché nonostante un periodo di “infiltrazione” e residenza nel senso letterale della parola, l'imprevedibilità degli eventi ci ha portato a ridiscutere la nostra stessa metodologia e approccio.

Conclusioni

La nostra ricerca sul displacement, cominciata nel 2019, si è sviluppata nel corso degli anni seguendo traiettorie diverse. A partire da una contingenza personale, vissuta da ciascuna di noi in primo luogo, abbiamo avuto modo di estendere il perimetro del discorso su geografie e temporalità diverse, vivendo sempre questa condizione in maniera collettiva e facendone esperienza con altre persone, esperienze e situazioni.

La nostra modalità di lavoro, basata sulla partecipazione attiva di tutte le persone che prendono parte alle nostre attività e su una prossimità fisica che permette momenti di dialogo e scambi informali, ha dovuto adattarsi a condizioni che sono state tutt'altro che facili, e che hanno chiesto alla nostra pratica di diventare elastica, di mutare con il mondo. Con la pandemia ci siamo trovate a sperimentare una curatela a distanza anche nei casi in cui avevamo iniziato un processo situato nello spazio e nel tempo: è quello che è successo con House of Displacement Barcelona, la cui ideazione è iniziata nel contesto in cui avevamo deciso di operare, insieme alle persone che avevamo coinvolto, ma la cui realizzazione si è attuata a chilometri di distanza, in una situazione di mobilità nazionale e internazionale ridotta.

Abitare questa difficoltà ci ha portato a ripensare il nostro modo di operare e a cercare di ricreare una forma di convivialità anche con il distanziamento sociale. Questo per noi ha significato lavorare con gruppi più piccoli di persone e abbandonare ogni residuo di spettacolarità, optando per soluzioni low-fi. Il nostro obiettivo è stato sempre più chiaramente quello di creare momenti di aggregazione significativi in cui ripensare determinate dinamiche che condizionano il nostro stare al mondo. L'arte contemporanea non è che uno strumento per raggiungere questo scopo in quanto modalità creativa per ritagliarsi spazi di libertà in un contesto iper-regolato e determinato. In questa prospettiva, il formato del festival crea una situazione in cui incontrarsi, scambiarsi, abitare un luogo e testare nuove modalità del sé; il successo di questa formula, se di questo si può parlare, si concretizza nella possibilità di creare e riprodurre relazioni sociali tra chi, in maniera temporanea e – talvolta – con modalità nuove, ne prende parte.

Bibliografia

Marco Baravalle, On the Bienniale's Ruins? Living the void, covering the distance, Institute of Radical Imagination, Napoli 2020.

Franco Bifo Berardi, Futurabilità, Nero Editions, Roma 2018.

Florian Malzacher, Feeling Alive. The performative potential of curating, in Florian Malzacher, Joanna Warsza (eds.), Empty Stages, Crowded Flats. Performativity as Curatorial Strategy, Alexander Verlag, Berlin 2017.

Thomas Nail, Flusso: il secolo del movimento e della kinopolitica, Kabul Magazine, maggio 2019. Vedi: https://www.kabulmagazine.com/kinopolitica-thomas-nail/

Jan Verwoert, Gathering people like thoughts: on hosting as an unorthodox form of authorship dedicated to the practice of Anton Vidokle, in Brian Sholis (ed.), Anton Vidokle: Produce, Distribute, Discuss, Repeat, Lukas & Sternberg, Nova Iorque 2009, pp. 11-19.

Note

  1. Thomas Nail, Flusso: il secolo del movimento e della kinopolitica, Kabul Magazine, maggio 2019. Vedi: https://www.kabulmagazine.com/kinopolitica-thomas-nail/

  2. Una nota sul linguaggio e sulle concordanze di genere adottate in questo testo: laddove indichiamo una pluralità, abbiamo deciso di mantenere nel testo il maschile sovraesteso, pur consapevoli della problematicità di questa scelta. Abbiamo cercato il più delle volte di adottare delle soluzioni che ci dessero l'agio di rivolgerci a una collettività inclusiva, scegliendo termini come “persone”, ad esempio. Non sempre questa scelta è stata possibile o è andata incontro a una fluidità della scrittura – che abbiamo cercato di preservare, decidendo in un saggio che ha un'impostazione narrativa di non affidarci a desinenze alternative. Se pensiamo allo schwa (o all'asterisco) non come a una soluzione stabile, ma come a un segno rosso sulla pagina che marca l'attenzione a un'istanza di inclusività, coltiviamo allora anche la speranza che in questo testo tutti i maschili sovraestesi suonino a loro volta come un segno rosso, una spia che ci porti a chiederci quale soluzione sia adottabile in un contesto del genere, un testo lungo dall'impianto narrativo scritto a più mani, e che ci ricordi che a oggi noi, come collettivo, non siamo ancora giunte a una sintesi. Discorso diverso va fatto per tutte le volte che parleremo con un “noi” plurale che indica le persone che compongono CampoBase. In questo caso, opteremo per il femminile sovraesteso: questo perché ad oggi il collettivo è composto da cinque persone che si riconoscono nei pronomi femminili e una persona che utilizza pronomi maschili, e uniformare il discorso al maschile sovraesteso ci suonerebbe come una forzatura.

  3. Franco “Bifo” Berardi, Futurabilità, Nero Editions, Roma 2018.

  4. Codice di Prevenzioni Incendi, DM 3 Agosto 2015, vedi: https://www.vigilfuoco.it/aspx/page.aspx?IdPage=10259

  5. Il festival ha visto la partecipazione degli artisti: Vanessa Alessi, Lucia Cristiani, Jacopo Foglietti, Alessio Mazzaro & Fiona Winning, Corinne Mazzoli & Ilaria Salvagno; del collettivo curatoriale GAPS (Sofía Corrales Akerman, Golnoosh Heshmati e Flavia Prestininzi) che ha a sua volta coinvolto gli artisti: Marcel Darienzo, Super Sohrab e Tarxun; dei ricercatori: Tommaso Guariento, Andrea Staid & Matteo Meschiari, e la redazione di Kabul Magazine.

  6. House of Displacement è stato realizzato nei seguenti luoghi della città di Torino: CampoBase (Via Reggio 14), Studio-laboratorio lamatilde, Tram di Progetto Diogene, Monomono bar, Porta Palazzo e Balon, Bastione San Maurizio, Imbarchino.

  7. Marco Baravalle, On the Bienniale's Ruins? Living the void, covering the distance, Institute of Radical Imagination, Napoli 2020.

  8. Jan Verwoert, Gathering people like thoughts: on hosting as an unorthodox form of authorship dedicated to the practice of Anton Vidokle, in Brian Sholis (ed.), Anton Vidokle: Produce, Distribute, Discuss, Repeat, Lukas & Sternberg, Nova Iorque 2009, pp. 11-19.

  9. Florian Malzacher, Feeling Alive. The performative potential of curating, in Florian Malzacher, Joanna Warsza (eds.), Empty Stages, Crowded Flats. Performativity as Curatorial Strategy, Alexander Verlag, Berlin 2017.

  10. Hanno partecipato a Visions of Displacement gli artisti: Enrico Boccioletti, Núria Güell & Levi Orta, Shadi Harouni, Luca Staccioli e Natalia Trejbalova.