Pandemic-washing: breve rassegna critica del discorso architettonico e urbanistico italiano nell’era del Covid

 Giulia De Cunto, Francesco Pasta | Città fragile | Vol II | Futuri urbani


Sulla da SARS-CoV-2 è stato detto tutto e il contrario di tutto, in Italia come altrove. In questo contesto a tratti confusionario le voci di architetti, urbanisti e pianificatori hanno trovato ampio spazio nei media nazionali, contribuendo a orientare il dibattito pubblico e le linee di intervento. Ci sembra utile esaminare i discorsi che stanno emergendo dal mondo dell'architettura e della pianificazione urbana mainstream in Italia riguardo all'imminente riassetto sociale, produttivo e territoriale in seguito alla pandemia di Covid-19, e individuare alcuni fili conduttori nel variegato panorama di interventi, proposte e smentite che riecheggiano tra reti televisive, quotidiani nazionali e siti d'informazione. Il fine è quello di decostruire e problematizzare alcune delle proposte in circolo, come il “ritorno alle campagne”, la “città post-pandemica” e la “casa a misura di confinamento”, anche mettendo in collegamento alcune delle voci critiche che certamente esistono, ma non ricevono sufficiente attenzione mediatica. Gran parte di queste narrative – che trovano ampia copertura mediatica e scarso criticismo nel nostro Paese – sono a nostro parere non solo semplicistiche e inconsistenti ma del tutto controproducenti, in quanto lasciano inalterate le cause strutturali per cui la pandemia ha avuto un impatto tanto catastrofico.

Smart working dal borgo: il ritorno post-pandemico alle campagne

Per cominciare, durante questi lunghi mesi di pandemia abbiamo assistito a un'esplosione del dibattito su un ipotetico “ritorno alle campagne” quale soluzione per sfuggire al contagio e rivitalizzare le “aree interne” del paese – quei interessati da dinamiche di bassa produttività e reddito, scarso accesso ai servizi, spopolamento, invecchiamento. Dalle pagine dei quotidiani nazionali, gli architetti più in vista della scena contemporanea propongono: un «Ministero della Dispersione» che accompagni il trasferimento dei cittadini nelle aree interne e adozioni da parte delle Città Metropolitane dei centri minori in stato di abbandono (Boeri, sul Foglio[1]); un «nuovo Umanesimo» in cui i nostri spazi di lavoro, svago e abitazione non saranno differenziati e potremo quindi fare smart working dai piccoli borghi (Fuksas, sull'Huffington Post[2]); un network di città storiche, «custodi della più grande cultura d'occidente», in cui gli abitanti sono soliti chiamare gli artisti rinascimentali con il nome proprio (Cucinella, su La Repubblica[3]). L'Italia dei borghi di campagna offre scenari perfetti per una nuova conquista speculativa, come dimostra la copertina dedicata al tema del mensile di business Millionaire[4] in cui vediamo droni sorvolare un paesino alimentato a pannelli solari e popolato da smart workers in monopattino.

La cosiddetta “ pandemica” potrebbe diventare occasione per un ripensamento dei sistemi insediativi e dei modelli di vita, inducendo anche un bilanciamento tra centri produttivi e territori marginalizzati. Ma nessuna delle proposte ad alta visibilità – che oscillano per lo più tra idealizzazione bucolica e vera e propria marketizzazione[5] – sembra affrontare con la necessaria profondità le problematiche strutturali che interessano questi luoghi. La relazione di dipendenza che oggi lega i centri minori a quelli maggiori è proprio una delle criticità che andrebbe scardinata: leggere il “sottosviluppo” delle aree interne italiane in termini di esclusione dai circuiti produttivi è semplicistico. Al contrario, nell'ultimo secolo i territori interni sono stati profondamente integrati in reti di estrattivismo, produzione e consumo sovra-locali, ma in una posizione di subalternità rispetto alle aree urbane. Le dinamiche della modernizzazione hanno – nel corso di più di un secolo – indotto una marginalizzazione sia materiale che discorsiva, e reciso il rapporto di cura e sostentamento reciproco tra le comunità locali e i territori circostanti sviluppatosi nel tempo.

Mentre il lavoro agricolo diventava sempre più meccanizzato e le monocolture intensive su larga scala andavano affermandosi nelle campagne, i contadini si spostavano verso le periferie metropolitane reinventandosi operai nelle fabbriche e si andava affermando un modo di sentire comune in cui la vita e la cultura rurali perdevano di valore di fronte alla prospettiva di una vita in città. Con il tempo, il modello dell'abitare urbano tanto mitizzato ha finito per diventare pressoché l'unico possibile, dimenticando invece che vivere in montagna, ad esempio, significa doversi occupare della crescita dei boschi, delle frane, delle nevicate e che la presenza di una natura con cui convivere non è elemento ignorabile come in città. Oggi vivere fuori dai centri urbani significa comunque fare la spesa in una catena di supermercati e acquistare gli stessi beni globalmente commercializzati, mentre è probabile che i prodotti locali del vicino vengano venduti quali beni preziosi nelle botteghe cittadine.

In quest'ottica, dipingere un'ipotetica campagna italiana come al di là della sfera del benessere capitalista e ragionare su come ampliarne il raggio, trasferendo modelli urbani nelle cittadine remote, ci sembra piuttosto nocivo. Le proposte fino a qui raccontate non mettono in discussione gli squilibri territoriali esistenti, anzi, li ripropongono prospettando un riposizionamento su una fetta più ampia di territorio di una parte della popolazione che è quella che può permettersi di scegliere se lavorare dalla propria seconda casa oppure dalla prima. Che fine facciano in queste visioni i lavoratori precari delle metropoli non è chiaro, o forse non è un problema di cui questi architetti sentono di doversi occupare. Infatti, che la narrativa sul ritorno ai borghi fosse basata su labili premesse e previsioni distorte[6] se ne sono accorti un po' tutti[7], e già a pochi mesi di distanza anche alcuni dei promotori della prima ora hanno iniziato a ritrattare.

Ammesso dunque che l'esodo dai centri urbani avvenga – il che è tutto da vedere, considerato che già nella seconda ondata, con l'arrivo dell'inverno, la voglia di fuggire in campagna sta scomparendo – c'è da chiedersi se abbia senso assecondarlo, visto che di dispersione abbiamo già parecchia esperienza e non è stato un gran successo. I margini delle città sono già esempio di come la bassa densità e l'urbanizzazione fatta di villette a due piani con giardino sia insostenibile, tanto come modello insediativo che rende difficile la fornitura dei servizi essenziali, quanto dal punto di vista ambientale per molte ragioni – una su tutte il consumo di suolo. Mentre cerchiamo nel breve termine di rendere i centri urbani a prova di virus, infatti, non abbiamo smesso di doverci confrontare – in un orizzonte temporale più ampio – con gli effetti (e le cause) della crisi climatica globale[8] rispetto alle quali assecondare le soluzioni urbanistiche fin qui proposte potrebbe rappresentare un ulteriore passo indietro.

Tra città-prigione e smart city. La “città a misura di pandemia”

Speculare alla visione neo-arcadica del ritorno alla campagna, e in parte strumentale a essa, è emersa in questi mesi una diffusa postura anti-urbana – difficile dire se autentica o di maniera. Finora celebrata come centro nevralgico di opportunità, scambi e crescita, la metropoli viene ora presentata come insicura, infetta, inospitale. Come fondale per questa narrazione, i media ci ripropongono continuamente due immagini urbane antitetiche: da un lato la città deserta e spettrale del lockdown, meglio se a volo d'uccello, catturata da un drone; dall'altro, l'irrefrenabile calca cittadina della “movida” e dello “shopping”, possibilmente compressa dallo zoom al livello della strada. È in questo quadro che varie proposte – alcune anche condivisibili – confluiscono nella visione della “città a misura di pandemia”.

Stando ai discorsi che circolano sui mezzi d'informazione, la crisi pandemica ci avrebbe aperto gli occhi su una miriade di questioni urbane e sociali, offrendoci spunti per re-immaginare radicalmente le nostre città. Ci ha rivelato che i centri storici si sono svuotati, che averli trasformati in parchi a tema li ha spenti, e che la monocoltura turistica, oltre che dannosa, è anche fragile. Ci ha dimostrato che è “nelle periferie” che abita la gente e che esiste un capitale sociale inestimabile. Ci ha fatto rendere conto che i servizi di prossimità – inclusa la sanità territoriale – sono stati smantellati, mentre invece sono un elemento chiave per la qualità della vita e il welfare. E ci ha fatto anche scoprire che la casa è uno spazio imprescindibile di benessere e cura. Ovviamente non c'era bisogno di epifanie virali per prendere atto di queste realtà e decidere di lavorarci su – come possono confermare i movimenti, le associazioni locali e gli attivisti sparsi per il Paese che si occupano di diritto alla casa e alla città, mutuo soccorso, lotta all'estrattivismo urbano, salvaguardia dell'ambiente, inclusione sociale. Se c'è voluta una pandemia globale per far arrivare tali questioni al centro del dibattito pubblico, ben venga. Ma resta da vedere come tradurre questa nuova consapevolezza in un'idea di città – e il dibattito architettonico dominante, in questo, sembra per il momento superficiale e autoreferenziale.

Sul Fatto Quotidiano, Salvatore Settis sostiene che «Il vero virus è la città-prigione»[9], affermando che «è in città […] che il contagio è più facile e veloce, la mortalità più alta, le strategie di contenimento più ardue». In realtà, la correlazione tra densità abitativa e relazionale e incidenza dell'infezione non è automatica, come dimostra il fatto che in Italia il virus si sia diffuso non soltanto nei grandi centri ma anche in aree sub-urbane fortemente diradate[10]. Più che la densità, il problema sembrerebbe essere il sovraffollamento e la sotto-infrastrutturazione[11]: essere costretti a vivere in molti in spazi limitati, condividere trasporti e servizi pensati per un numero molto minore di abitanti. In quest'ottica, il fattore di rischio non è l'urbano in sé, ma le vulnerabilità di quei territori dove il virus si sovrappone a fragilità pre-esistenti e a decenni di politiche di austerità. Analizzare il rapporto tra territori e contagio attraverso una lente meramente geografica rischia dunque di essere fuorviante. Si è spesso sentito ripetere come a Roma, per esempio, il quartiere più colpito sia Torre Angela (dove si trovano anche le case popolari di Tor Bella Monaca), senza una riflessione sulle possibili concause sociali dietro questo dato. Non si trovano dati sui luoghi e le modalità di contagio o sui contesti e i profili di rischio[12]. Nonostante la quotidiana marea statistica sul Covid, insomma, c'è una reticenza a raccontare attraverso i dati come la diffusione disomogenea del virus sui territori sia strettamente connessa alla propagazione – anch'essa disomogenea – all'interno del tessuto sociale.

Al contrario, nel dibattito urbanistico post-covid le cosiddette periferie sono tornate alla ribalta (come ciclicamente succede), stavolta prendendosi una vera e propria rivincita grazie al rovesciamento prospettico indotto dal lockdown. Anche le periferie «Possono essere un luogo di bellezza»[13], riconosce Maria Claudia Clemente dello studio Labics, mentre Mario Cucinella dichiara che «Mai come adesso sembra così gradevole viverci. La periferia non è più il margine»[14]. Su dove si situi e cosa contenga questa periferia sembra esserci confusione. A ben vedere, la “periferia” viene impiegata come topos dell'immaginario omogeneizzante e distorcente – una categoria che include gli interventi modernisti (altrimenti noti come “casermoni”) e il Pigneto, lo sprawl suburbano della classe media e le borgate popolari – perdendo ogni validità analitica. L'inconsistenza di questa riscoperta delle periferie viene alla luce nella campagna comunicativa per la vaccinazione di massa pensata dallo Studio Boeri, che ha avuto grande eco mediatica attirandosi al contempo svariate critiche[15]. In questa sede ci interessa osservare come i padiglioni floreali vengano visualizzati nelle piazze storiche d'Italia, sfruttate come sfondi per un'Instagram-story su cui applicare un emoji: tra Piazza del Popolo e Piazza del Campo, luoghi simbolo di una supposta identità nazionale, non si scorge una “periferia” né tantomeno un semplice quartiere residenziale. Considerato l'obiettivo della campagna – avvicinare la popolazione alla vaccinazione – c'è da chiedersi se una primula atterrerà anche al Quarticciolo o a Primavalle, a Ponte di Nona o a Dragona, i luoghi dove “grazie al Covid” abbiamo scoperto risiedere la maggior parte della popolazione, o se gli abitanti dovranno recarsi in Centro per vaccinarsi.

Al netto della retorica del niente sarà più come prima, in effetti, la città del futuro post-covid assomiglia fin troppo alla città del futuro pre-covid. Ne è un buon esempio Tirana Riverside[16], masterplan da poco annunciato per la capitale albanese dallo Studio Boeri (sì, ancora lui), un classico smart-district zeppo di tetti e facciate verdi, aree pedonali, droni in volo e addirittura mucche e cavalli al pascolo in un'area verde urbana non recintata. Il progetto è stato pubblicizzato come «primo distretto al mondo pensato per l'era post-coronavirus», alla luce di accorgimenti come spazi aperti e verdi, una stanza in più per l'isolamento emergenziale, ampie terrazze, balconi e dehors, centri medici di prima urgenza. Considerata la tempistica, è difficile non leggerla come un'operazione di riconfezionamento anti-pandemico della ben nota città smart, green e resiliente. Una città in cui il distanziamento sociale è inscritto nello spazio costruito, le relazioni umane sono mediate dalla tecnologia, la salubrità è garantita da spazi aperti privati e verde addomesticato sotto casa – ma che non risolve le criticità sociali che i centri urbani dovevano affrontare già prima di questa emergenza.

Il migliore dei lockdown possibili: la casa a prova di confinamento

La discussione sull'evoluzione post-pandemica della città si lega alla questione del futuro degli spazi residenziali e del settore immobiliare. Le riflessioni degli architetti si sono infatti concentrate su come si trasformerà – o si sta già trasformando – lo spazio all'interno delle nostre case in relazione ai nuovi modi di vivere e le esigenze emerse nell'ultimo anno. Per molti le restrizioni governative anti-contagio si sono tradotte nel ricollocamento tra le mura domestiche di attività che prima svolgevano all'esterno e in contatto con altri, e nell'esternalizzazione di compiti e rischi verso gli ormai famosi lavoratori essenziali. La glorificazione del finora vituperato divanaro è andata di pari passo con la “criminalizzazione dell'aria aperta”[17], mentre si acuiva la tendenza a confondere spazi di vita e lavoro, l'imprevisto della vita quotidiana si restringeva al campo di un algoritmo, e contatto fisico ed empatia interpersonale venivano ridotti al minimo indispensabile (sì, abbiamo ricevuto lezioni su come fare sesso, se proprio necessario, con la mascherina[18]). Tutto questo, ovviamente, non sarebbe stato possibile senza l'ausilio della digitalizzazione: come scrive Paul Preciado[19], ci è stato imposto un esercizio collettivo di pedagogia informatica per trasformarci, volenti o nolenti, in soggetti dell'era del capitalismo informatico. Ma il mondo dell'architettura non ha perso tempo a riflettere sulle implicazioni di questo processo, o sull'opportunità o meno di assecondarlo, offrendosi di progettare in fondo il migliore dei lockdown possibili: l'ambiente ideale per questo modello di socialità, produzione e consumo, dove gli acquisti ci vengono recapitati a casa via drone dal tetto, gli amici e i colleghi li vediamo su Zoom e le nostre serate si svolgono in streaming.

La “lettera aperta” indirizzata al presidente della Repubblica dagli studi Fuksas e Archea[20], ad esempio, è solo il più plateale dei numerosi proclami emersi dal mondo dell'architettura (e dell'immobiliare[21]) sull'edilizia residenziale del futuro – connessa e confortevole, ideale per telelavoro, telemedicina e tele apprendimento[22]. Vi si tracciano le linee guida per un habitat anti-pandemico incentrato sulla dimensione privata in cui a costituire un vero balzo verso il futuro del nostro vivere sarebbero un “kit di pronto soccorso”, “spazi comuni per lo smart working”, o “la possibilità per tutti di sanificare il proprio bagno”. Un ambiente domestico al contempo iperconnesso e isolato da cui trapela non solo un'interpretazione limitata della casa e dell'abitare – ridotto allo spazio domestico (che sconfina, al più, nelle aree condominiali) – ma anche del benessere e della cura.

L'idea che il benessere e la qualità abitativa coincidano con la domotica e l'esclusività, e che queste si rivelino essenziali in tempi di pandemia, sembra essere piuttosto radicata tra gli architetti. Ad esempio, il complesso residenziale progettato da Labics a Cascina Merlata (Milano) – studiato sui principi della “wellbeing city”[23] e della “healthy city[24] in cui gli edifici sono composti da alloggi di ampia metratura con logge, terrazzi e giardini, corredati da palestra, piscina e sale cinema ad uso esclusivo dei condomini – viene raccontato come prototipo della nuova era del mercato immobiliare post-pandemico.

Sono in molti a sottolineare la crescente domanda sul mercato di proprietà di taglio ampio, luminose e con balconi e terrazzi. Ma chi di noi, potendo, anche prima della pandemia non avrebbe scelto una casa spaziosa e con terrazzo? Probabilmente chi a questo genere di case non aveva accesso prima della pandemia troverà ancor più difficoltà ad accedervi in seguito alla contrazione economica innescata dal virus. «La casa post-covid esiste già ed è vuota», argomenta Alessandro Coppola[25], che mette in evidenza come la “casa a prova di pandemia” assomigli in fondo alle case dei ceti più abbienti. Queste proposte non tengono conto delle grosse criticità che il mercato immobiliare si porta dietro dall'era pre-Covid quali, ad esempio, il come riconvertire la mole di edifici inutilizzati di cui sono piene le nostre città o quale destino avranno le torri per uffici, spesso ancora in costruzione, mentre il lavoro si smaterializza nel digitale. Il dibattito, per come è strutturato al momento, ha una precisa valenza politica e di classe che ignora chi la casa non ce l'ha – né potrà mai ottenerla nelle condizioni attuali – o coloro il cui lavoro – ammesso che ce l'abbiano – non può essere svolto via cavo, che sia 4 o 5G.

In un paese in cui le politiche pubbliche hanno sistematicamente favorito la proprietà privata e la rendita immobiliare, non stupisce che il discorso sia incentrato su spazi privati e attività individuali, ma si avverte un'assenza quasi totale di ragionamenti su come e in quali spazi riprendere a svolgere tutte quelle attività collettive che fanno parte dell'abitare e che non possono essere sostituite da un surrogato digitale. Nelle altisonanti visioni architettoniche “per il prossimo secolo[26] – a fronte di una mole di proposte sulla casa ideale per il confinamento – mancano idee per quegli spazi (ancora chiusi) come biblioteche, scuole, teatri. Ovvero quei luoghi che potrebbero essere ripensati, sul lungo termine, in un'ottica di prevenzione che non ci costringa al confinamento digitale.

Conclusione

Nel dibattito critico internazionale si sta facendo strada una necessaria complessificazione dell'analisi della crisi pandemica, e quindi delle possibili risposte. L'emergenza globale in corso viene riconcettualizzata come sindemia, ovvero un disastro sanitario, sociale ed economico ad opera dell'azione del virus, sovrapposta a vulnerabilità e preesistenti, e su più dimensioni. Qui come altrove il contributo del mondo dell'architettura e dell'urbanistica sarebbe prezioso nella gestione delle crisi ambientali, politiche e sociali su cui la pandemia si è innestata. Gran parte delle voci in circolo sembrano invece concentrate unicamente nello sforzo di debellare il virus del momento e di incanalare le esigenze emerse nel corso della pandemia per ripristinare i cicli di consumo e profitto da essa interrotti: un quadro che ci appare disarmante.

Proponendo un'improbabile dispersione demografica, celebrando una tanto teatrale quanto superficiale riscoperta di aree interne e periferie urbane, riabilitando con una ripassata di “antipandemicità” modelli urbanistici precocemente invecchiati, assecondando acriticamente la retorica dell'#iorestoacasa, preoccupandosi di intercettare le tendenze immobiliari in atto in quest'esperimento di confinamento digitale di massa, il dibattito architettonico e urbanistico italiano sta dando prova di ineffabile gattopardismo. Alla luce di queste brevi considerazioni, le emergenti – fomentate e amplificate dai mezzi d'informazione – costituiscono, prese nel loro insieme, un vero e proprio processo di pandemic-washing: ovvero una strategia di narrazioni fittizie e interventi cosmetici che, giustificati dallo sconvolgimento pandemico, distolgono l'attenzione dalle questioni fondamentali e puntano a riabilitare e perpetuare i modelli di sviluppo che sono all'origine di tale crisi. In questo delicato momento è necessario costruire alternative critiche a questo genere di proposte, perché esiste il rischio concreto che siano queste narrative – continuamente al centro del dibattito pubblico – a guidare le scelte politiche e culturali per un ipotetico futuro in cui tutto cambierà per restare com'è.

Note

  1. https://www.ilfoglio.it/terrazzo/2020/04/12/news/ripensare-lintensita-312334/

  2. https://www.huffingtonpost.it/entry/fuksas-serve-un-nuovo-umanesimo-torniamo-nei-paesini-e-lavoriamo-da-casa_it_5ed354e5c5b6921167eea2c6

  3. https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/04/26/news/cucinella-254949605/

  4. https://www.millionaire.it/wp-content/uploads/2020/12/copertina_dic-gennaio_2021.jpg

  5. https://itsfor.it/

  6. https://www.urbanit.it/borghi-e-citta-non-e-lalternativa/

  7. https://www.today.it/blog/millennio-urbano/pandemia-neoruralisti.html

  8. https://www.artribune.com/progettazione/architettura/2020/08/citta-pandemia-futuro/

  9. https://officinadeisaperi.it/materiali/citta-prigione-di-salvatore-settis/

  10. https://www.google.com/search?q=chiodelli+covid&oq=chiodelli+covid&aqs=chrome..69i57j33i160.3614j0j7&sourceid=chrome&ie=UTF-8

  11. https://www.che-fare.com/battiston-sennett-strututre-flessibili-urbanesimo-aperto/

  12. https://www.internazionale.it/notizie/laura-tonon/2020/12/24/italia-covid-mortalita

  13. https://www.ilfoglio.it/societa/2020/12/03/news/il-covid-e-le-citta-del-futuro-gli-archistar-altro-che-ztl-in-periferia-in-periferia–1501190/

  14. https://www.ilfoglio.it/societa/2020/12/03/news/il-covid-e-le-citta-del-futuro-gli-archistar-altro-che-ztl-in-periferia-in-periferia–1501190/

  15. https://www.artribune.com/progettazione/architettura/2020/12/primula-padiglione-vaccini-boeri/

  16. https://www.stefanoboeriarchitetti.net/project/tirana-riverside/

  17. https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/criminalizzare-il-jogging/

  18. https://video.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/sesso-e-covid-l-esperta-solo-con-la-mascherina/368935/369515

  19. https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2020/12/24/confinamento-digitale-pandemia

  20. https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/arte/2020/04/18/archea-e-fuksas-a-mattarella-ripensiamo-case-e-sanita-_5228716e-bd04-4843-ba85-649156bda8d1.html

  21. https://www.idealista.it/news/deco/interni/2020/09/14/150895-cambiare-casa-dopo-il-lockdown-gli-aspetti-da-tenere-in-conto

  22. https://forbes.it/2020/06/07/casa-a-prova-lockdown-come-ripensare-i-luoghi-dell-abitare-nel-post-covid/

  23. https://www.01building.it/costruzioni/casa-futuro-anti-covid-progetti-milano/

  24. https://www.01building.it/costruzioni/casa-futuro-anti-covid-progetti-milano/

  25. https://www.glistatigenerali.com/economia-civile-solidale/la-casa-post-covid-esiste-gia-ed-e-vuota/

  26. https://www.huffingtonpost.it/entry/fuksas-ho-proposto-un-piano-del-secolo-per-la-casa_it_5eef846dc5b6691f538095bc